Airola: Le pietre mai nate
Airola: Le pietre mai nate. Dopo un considerevole periodo di tempo è stata finalmente riaperta al pubblico la piazza della Annunziata in Airola. Finalmente? Fino a un certo punto.
Quando circa venticinque anni fa mi accadde di rinvenire il vero autore della facciata e dell’interno dell’Annunziata di Airola, contribuendo alla soluzione di un autentico rebus che affliggeva la critica vanvitelliana in ordine alla anomalia dell’episodio airolano, non avrei immaginato come un giorno mi sarei intrattenuto sui lavori della piazza dove è stata costruita.
Lavori promossi qualche anno addietro, prima della pandemia, e purtroppo funestati da molteplici difficoltà che ne hanno causato tempi insopportabilmente pantagruelici.
Quello che a mio avviso dovrebbe invece sollecitare più puntualmente l’attenzione e l’indignazione dei cittadini di Airola è proprio il risultato di questa operazione a dir meno rocambolesca, che è direttamente correlato alla scelta di rifare la piazza e soprattutto a come ne è stata delineata la gestazione.
La scelta infatti del materiale adoperato è del tutto arbitraria e palesemente sbagliata. Il punto di bianco della pietra scelta per la pavimentazione è addirittura conflittuale con quella della pietra che costituisce le membrature architettoniche della facciata e del sagrato.
Salta agli occhi finanche di un infante distratto la distonia percettiva che ne deriva. E a proposito di sagrato, è nientemeno sparito l’ultimo dei suoi gradini, annegato nel nuovo piano di calpestio della pavimentazione.
Quando Giuseppe Falzarano mi ha chiesto, nel 2020, di presentare un suo libro dedicato alla Annunziata, ho raccontato in quella occasione – tra l’altro – proprio la luminosità della pietra di Bellona utilizzata nel cantiere della facciata durante i primi anni Ottanta del XVIII secolo.
Che è, nelle more, il medesimo contesto in cui avviene la realizzazione della pavimentazione lapidea dell’ex casale di San Giorgio.
Se già la sistemazione della piazza precedente non era certo indimenticabile, presentando i segni di una sostanziale ingenuità progettuale con la citazione della dualità pietra-laterizio al suolo e una impressionistica efflorescenza geometrica, quella attuale non è nemmen questo.
Non è ingenua, non è approssimativa. Difficile dire che cosa altro sia se non un grande pianerottolo condominiale. Quando qualcosa nasce male, non può che terminare in una res nullius. Al di là della buona volontà di quanti hanno perlomeno provato a metterci un rammendo.
Non è una piazza, non è sotteso alcun pensiero, nessuna intenzione progettuale, non c’è traccia di un’idea. È un riempimento lastricato di uno spazio nel frattempo franato al rango di vuoto urbano.
Ma un lastricato non fa una piazza, tanto più se in quella piazza insiste una delle emergenze storico-artistiche più insigni del Sannio. E ben per questo, anche per questo, sarebbe stato naturaliter indire un concorso di idee aperto a tutti i progettisti, cercando di individuare la soluzione più adeguata.
Niente di tutto questo. Si è preferito cercare soluzioni che non risolvono, soluzioni che recano danni. Si è preferito l’approccio al ribasso della mediocrità da retrobottega.
Meritava questo la piazza che custodisce uno dei monumenti sovente presenti nei manuali di storia dell’arte del Settecento? E gli organi preposti alla sua tutela sono stati punto informati di un simile sproposito?
Non risulti eccessivamente paradossale se dico che sarebbe stato meno dannoso limitarsi a una semplice distesa di bitume.
Un danno di gravità inaudita, penso di poter affermare con buona certezza si tratti del danno più grave – tra i molti di cui ha sofferto il monumento – fin dalla sua edificazione.
Discorso diverso sarebbe quello relativo alla invasiva alterazione degli spazi interni avvenuta nella seconda metà del XIX secolo, ci porterebbe troppo lontano.
E tornando alla piazza, e alla facciata che ne è elemento dirimente, sarebbe molto utile ed esemplificativo presentare una piccola sinossi della iconografia a nostra disposizione relativa alla evoluzione nel tempo del rapporto tra un monumento e il suo spazio urbano.
Scommettereste sullo stupore e su qualche comprensibile rincrescimento che ne deriverebbe? Fin qui gli attori direttamente coinvolti in questa storia, ma i cittadini? Gli attori primi e ultimi di tutto quanto accade in una comunità, quale che ne sia l’evento.
E dunque gruppi, gruppuscoli, gruppetti, circoli, circolini, circoletti, bocciofile della mattina, conventicole del pomeriggio, campioni olimpici di generosità un tanto al chilo, sciàmiti carezzevoli di vanità rusticane, ierofanti del dehor, dadaisti con le zucchine, convegnisti senza parole, intrattenitori senza intrattenimento, gazzettieri senza lettori, serpenti incantatori di serpenti senza incanto, occultisti ignudi al sole, figuranti sfigurati, divulgatori della domenica, musicisti del lunedì, teatranti del martedì, cineasti del mercoledì, sbandieratori del giovedì con tutto il resto della settimana cantante.
Di preciso, eccettuando irrefutabilmente poche eccezioni, in quale periplo boreale si sono smarriti costoro in tutto questo tempo? In quale forra fluviale sono finiti i postulatori che cianciano a ogni pie’ sospinto sul famigerato territorio?
Penso sia a questo punto auspicabile allestire – ed è un appello che sento di lanciare a chi legge – una campagna di ricerche per provvedere al loro pronto rinvenimento e recupero.
E non serve a niente smarrirsi nei vaniloqui inconcludenti da affidare al finto pubblico delle piattaforme elettroniche. Non serve a niente questo anfanare sghembo se poi tutto resta nel deliquio farisaico e imbelle di quanti intendono eludere quel certo problema irrisolto con la propria indifferenza.
Contaminazioni tra Molière e il Grand Guignol, diceva Pasolini quando parlava degli italiani a ferragosto. Figli intristiti di questa loro colpevole incoscienza.
Quelle pietre, ogni singola pietra, sono i chiodi che che ci consegnano alla irrilevanza di coloro che saranno ricordati come gli inetti che non seppero andare oltre un balbettìo in forma lapidea.
E quando verrà il momento, perché verrà, in cui cittadini sperabilmente più dirozzati e avveduti provvederanno alla realizzazione di una nuova piazza, la presente mediocrità in conci svanirà nella sua flatulenza senza destino. C’è solo da sperare ciò avvenga il prima che si potrà.
Ma nel frattempo si sconta oggi una cittadinanza distratta e inviluppata in un bozzolo di indifferenza veemente, di coazione a ripetere schematismi che la priva sempre più della ambizione a essere agente attivo della storia che tocca attraversare.
E invece s’è tollerato e metabolizzato per troppo tempo lo sfregio di una piazza oltraggiata da un cantiere fermo in un degrado che si alimentava ogni giorno di più. La verità è che in questa vicenda hanno perso tutti, ma proprio tutti.
Sarebbe troppo facile e tartufesco allestire adesso crocifissioni soltanto per amministratori e imprese. No, troppo facile. Se le istituzioni non rispondono più ai propri cittadini allora i cittadini hanno il dovere di andare a prendersele, quelle istituzioni.
Presidiandole e obbligandole a fare quel che il loro mandato prevede. Anzitutto accedendo alla conoscenza dei fatti, di chi ha in questo caso ingenerato tutti questi errori. Perché errori se ne commettono, è inevitabile. Anche gravi, come in questo caso.
Ma se una comunità non sa emendare i propri errori, anche quando così apertamente marchiani, se è solo il costrutto della propria ontologia coattiva, se è solo l’epicedio stonato della propria vacuità, non è soltanto una comunità resa morta per propria mano. Non è proprio neanche mai nata.
Giacomo Porrino