Cervinara: arrivano i garibaldini e la rivolta viene repressa duramente
Il sogno del ritorno dei Borbone non era destinato a durare e ventiquattro ore dopo l’inizio della rivolta i cervinaresi furono costretti a risvegliarsi dai propositi di restaurazione.
Da Atripalda, infatti, partì una colonna di quattrocento garibaldini del Battaglione Peuceta comandata dal maggiore Brandilla Fuà, un genovese distintosi per il suo coraggio ma soprattutto perché non faceva emergere pietà nelle sue azioni di guerra.
Le truppe arrivarono a Cervinara quando era oramai sera. Ecco il racconto di un garibaldino, Antonio Binda, cosi come trascritto nel suo diario, che testimonia un gesto eroico da parte di un cittadino:
“La notte era oscura, annuvolava, non rallegrata dalla luna. Nessuna resistenza, assoluta quiete anzi fino alla piazza maggiore del paese. Qui si scambiò qualche fucilata e si uccisero tre o quattro di quei miserabili. Al corpo di guardia un uomo montava la sentinella. Credendolo guardia nazionale, i soldati per convincersene, gli gridarono: Viva Garibaldi a cui egli freddo ed impassibile rispose: Viva Francesco Secondo. Non ci volle altro. Sebbene il capitano ordinasse ai soldati di non fare fuoco, molte fucilate partirono dai ranghi e cadde crivellato dalle palle mormorando ancora: “Viva Francesco Secondo”(…). Il cadavere fu trascinato altrove ed io mi riposai”.
Ma Cervinara era diventata improvvisamente strategica ed ecco che verso il paese si appropinquava anche la colonna di militari provenienti da Maddaloni. Era stato il generale Avezzana a dare ordine che la rivolta del paese caudino fosse sedata al più presto e ad ogni costo.
Le truppe erano state affidate al tenente colonnello Giuseppe De Marco il quale entrò qualche minuto prima dei garibaldini in paese.
Fu proprio De Marco a parlare con Fuà e a dirgli di tenere i suoi uomini a bada affinché non ci fossero ritorsioni contro la popolazione civile. Appello inutile, visto che i garibaldini furono liberi di “arrestare i reazionari” ma soprattutto di saccheggiare le case. De Marco fu talmente stomacato dagli atteggiamenti delle camice rosse che scrisse: “Il paese fu messo a scompiglio ed io non avevo le forze per fermarli”. E decise di andare via.
Non solo. Un terzo battaglione si avvicinava a Cervinara: quello guidato dal maggiore Sarno. E furono gli uomini proprio di Sarno ad arrestare un prete: un certo Frà Pacifico messo in ceppi in contrada Cioffi. Anche l’ufficiale appena arrivato si rese conto delle cattive gesta dei garibaldini tanto da ordinare ai suoi uomini di non prendere parte alle nefandezze, visto che “i cittadini sono quieti e non si rende necessario alcun uso della forza”.
Le truppe regolari, appurato che la situazione era oramai sotto controllo, iniziarono il ritiro mentre la repressione fu portata avanti dai garibaldini.
I cervinaresi, però, non si arresero facilmente. Davanti all’attacco indiscriminato alle case indifese organizzarono una dura resistenza e una forte guerriglia.
Le truppe regolari della guardia nazionale avevano deciso di lasciare il paese perché i comandanti non riuscivano a tenere a bada le camice rosse le quali, come già scritto, non ebbero alcuna remora a compiere una repressione indiscriminata.
Organizzata in diverse bande, la “resistenza” dei caudini riuscì a tenere testa al drappello dei Mille per oltre ventiquattro ore. Alla fine, Fuà fece emettere un bando: se non fossero state consegnate le armi e i rivoltosi non si fossero arresi, il paese sarebbe stato totalmente raso al suolo.
I “reazionari”, allora, decisero di deporre le armi e mettere fine al sogno del ritorno dei Borboni.
Alla fine la rivolta era costata la vita a sette cittadini cervinaresi, un soldato della guardia nazionale ed un garibaldino.
Per i presunti crimini, furono almeno settanta i rivoltosi finiti in ceppi. Tra questi, anche il rappresentante di una nota famiglia nobiliare cervinarese che si fece un anno e mezzo in carcere con l’accusa di cospirazione. Colpì, però, la durezza del tribunale criminale di Atripalda che sanzionò con il massimo della pena ognuno dei settanta cittadini finiti nelle grinfie della giustizia savoiarda.
Fu questo l’inizio del brigantaggio anche in Valle Caudina? No di certo. Il fenomeno era già diffuso sotto i Borboni: i Briganti reclamavano giustizia e indipendenza dalla monarchia napoletana. Di certo la recrudescenza della rivolta fu dovuta anche a casi come quelli di Cervinara, in cui la repressione cieca non lasciò lo spazio al dialogo.
Qui la prima parte
Qui la seconda parte
(3.fine)
Angelo Vaccariello
Le notizie di questa serie di articoli sono liberamente tratte da “Manifestazione antisabaude in Irpinia” – Quaderno numero 2 di Edoardo Spagnuolo. Le informazioni sono ricavate dall’Archivio di Stato di Avellino e dalle sentenze della Gran Corte Criminale.