Detenuto in coma muore in carcere, Vannetiello: Una barbarie
Un giovane romano, Stefano Crescenzi, di anni 37, era detenuto in custodia cautelare in quanto condannato in primo grado, alla pena di anni 23 di reclusione dalla Corte di Assise di Roma, presieduta dal Giudice dott. ssa Anna Argento con a latere dott. Sandro Di Lorenzo, sentenza avverso la quale era stato depositato atto di appello .
Il reato è quello dell’omicidio di Giuseppe Cordaro avvenuto in Roma alla via Aquaroni, zona Tor Bella Monacam, il 30 marzo dell’anno 2013, per il quale il giudice di primo grado ha escluso che fosse un delitto di mafia .
A causa delle sue gravissime condizioni di salute, dovute probabilmente connesse al secco e protratto rifiuto di alimentarsi, il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, nel mese di settembre 2016, ritenne che Crescenzi non potesse rimanere presso un ordinario istituto penitenziario e decise il suo trasferimento dalla casa circondariale di Livorno presso il centro clinico della casa circondariale di Napoli – Secondigliano, anche alla luce del contenuto di una perizia svolta su incarico della Corte di assise che in tali sensi concludeva.
Il peggioramento delle condizioni di salute del detenuto, però, proseguiva.
Infatti, dopo pochi giorni del suo arrivo a Napoli, i sanitari del centro clinico della struttura penitenziaria di Napoli – Secondigliano subito si sono resi conto che non avrebbero potuto apprestare le cure al detenuto, le cui condizioni diventavano incontrollabili .
Così, la direzione sanitaria del penitenziario partenopeo decise il trasferimento all’Ospedale Cardarelli di Napoli e, di lì, ancora trasferito, infine, in condizioni a dir poco preoccupanti, all’ Ospedale Don Bosco di Napoli.
La situazione clinica del detenuto, con il passare dei giorni, ancora di più precipitava tanto da portare i difensori di Crescenzi, l’avvocato Dario Vannetiello del Foro di Napoli e l’avv. Daniele Fiorino del Foro di Roma, a chiedere alla Corte di Assise di Roma di revocare immediatamente la misura cautelare o, in via subordinata, adottare urgentemente una decisione che consentisse al detenuto di ricevere le cure adeguate in un centro specializzato, da individuarsi da parte della Corte o da parte dei familiari, anche con la modalità degli arresti domiciliari mediante controllo elettronico .
Non sfugga che il detenuto già veniva ritenuto dai sanitari a rischio di morte improvvisa.
La difesa aveva segnalato sin da mese di ottobre 2016 che, come scritto dai sanitari, il detenuto era giunto addirittura in coma; inoltre, l’avvocato Dario Vannetiello aveva con un esposto al Primo Presidente del Tribunale di Roma rappresentato che il detenuto sarebbe morto se non fossero stati effettuati i giusti interventi e le opportune cure, in una struttura specializzata che poteva essere scelta dai familiari del malato in coma, non appena fosse venuta meno la misura cautelare.
Ulteriore richiesta di revoca della custodia cautelare era stata formulata dagli avvocati Vannetiello e Fiorino proprio giovedì scorso 19 gennaio ed indirizzata alla Corte di assise di appello di Roma – II sezione penale – alla luce dell’ulteriore aggravamento delle sue già scadute condizioni cliniche.
La urgentissima richiesta formulata dagli avvocati – alla quale era stata allegata la recentissima certificazione sanitaria del giorno 11.01.17 dell’Ospedale Don Bosco di Napoli attestante che il detenuto era in imminente pericolo di vita – ancora non riceve risposta.
In tali provate condizioni, come è noto, la decisione deve esser assunta con la immediatezza che il caso impone .
Ognuno ha diritto di non morire, ivi compreso un uomo in stato di detenzione, a maggior ragione quando non è stato neppure condannato definitivamente.
Vi è la presunzione di innocenza dei cittadini sino alla decisione definitiva di condanna.
La legge, giustamente, prevede che un uomo può essere sottoposto a carcerazione preventiva, quindi prima della sentenza definitiva di condanna, ma, come è noto, devono ricorrere le esigenze cautelari che sono quelle del pericolo di inquinamento delle prove, di fuga e di reiterazione del reato.
Nel presente caso il pericolo di inquinamento delle prove era superato dalla avvenuta conclusione del processo di primo grado.
Mentre il pericolo di fuga e quello di reiterazione era escluso in radice dall’essere il detenuto in coma, in fin di vita.
Allora perché la Corte di Assise di appello di Roma non ha deciso subito ?
Cosa i giudici aspettano ?
Ed ancora, i Giudici del Tribunale dal riesame, se avevano già ricevuto la allarmante comunicazione dai sanitari dell’Ospedale Don Bosco che Crescenzi stava per morire, perché hanno deciso di prolungare la procedura decidendo di conferire un incarico peritale , con inevitabile prolungamento della decisione su un caso cosi urgente da definire ?
C’era di mezzo la vita di un uomo, un presunto innocente.
La mamma del detenuto ed i familiari tutti chiedevano solo di non farlo morire; poi, se Crescenzi aveva sbagliato, avrebbe pagato il suo conto con lo Stato .
La detenzione non deve mai essere disumana, come le decisioni di chi rappresenta lo Stato; le decisioni urgenti non possono arrivare in ritardo .
E poi, come poteva un moribondo in coma ( da tre mesi circa e sino ad oggi in rianimazione, da tre mesi intubato, respirando solo grazie alla ventilazione assistita) con prognosi estremamente riservata, darsi alla fuga o commettere reati ?
Nonostante tale drammatica situazione il Tribunale del riesame di Roma, presidente dott. Azzolini, relatore dott. Steidl, in una prima occasione, non aveva ritenuto sussistenti i presupposti per revocare o sostituire la misura cautelare, mentre in una seconda occasione, pochi giorni orsono, il 13.01.17 – vale la pena ripetere – , nonostante la presenza di una certificazione dei medici dell’Ospedale Don Bosco della città di Napoli attestanti che era in imminente pericolo di vita, non hanno deciso per la sua scarcerazione, ma hanno ritenuto di rifissare un’ altra udienza per chiedere ad un medico di loro fiducia quali fossero le condizioni cliniche del detenuto, incomprensibilmente dimostrando di non fidarsi della certificazione sanitaria, presente in atti, dei medici dell’ospedale partenopeo che invece avevano da tempo “ visto giusto” .
Purtroppo, l’ulteriore udienza, ritenuta necessaria dal Tribunale del riesame nonostante lo stato di coma che perdurava da ben tre mesi, non avrà senso perchè Crescenzi Stefano non c’ e più .
I familiari del detenuto in coma, in fin di vita, moribondo, avevano o non avevano il diritto di decidere loro dove e come e chi doveva cercare di salvare Stefano Crescenzi ?
I medici dell’Ospedale Don Bosco di Napoli dove per legge è stato portato (e che non sono stati scelti né dal detenuto , nè dai familiari) avevano in più occasioni e da oltre due mesi riferito ai giudici che il detenuto era in coma ed era in imminente pericolo di vita .
Allora era innegabile che non sussistevano più le esigenze cautelari, come era ancora più innegabile che le eventuali esigenze ravvisabili si erano affievolite legittimando quantomeno una misura cautelare diversa .
Come è possibile che non è stata revocata la carcerazione preventiva ?
Spesso ci si dimentica che dietro un nome ed un cognome, non c’è un numero, ma un uomo, come ci sono i familiari, i quali, spesso, non hanno neppure compiuto un’ illegalità, ma che subiscono quello che, in questi tragici momenti, nessun uomo dovrebbe mai subire, tantomeno da chi rappresenta la Giustizia .
Tutto quello che è accaduto è inaccettabile .
Sentiamo forte il dovere – prima come uomini, poi quali difensori di Stefano Crescenzi -, di portare a conoscenza dei cittadini italiani quello che è accaduto, augurandoci che non accada più a nessun altro italiano che si trova ad essere detenuto nelle patrie galere.