Di rondini e di piume, Domenico De Masi nel ricordo di Giacomo Porrino
Di rondini e di piume, Domenico De Masi nel ricordo di Giacomo Porrino. “Bisogna essere leggeri come una rondine, non come una piuma”, Domenico De Masi aveva scelto queste parole di Paul Valery come epigrafe del suo sito web proprio per indicare la differenza tra la levità della forza che muove e volge una scelta, e la vana volatilità della inconsapevolezza.
Il sociologo dei lavoratori, come viene definito nelle ultime ore, dopo la sua morte, in realtà uno dei più apprezzati studiosi di economia del lavoro e dei processi produttivi. Il teorico della doppia dialettica marxiana nel mondo del lavoro e dell’ozio creativo come eversione dello sfruttamento.
Aveva lavorato in stretta collaborazione con persone come Adriano Olivetti, quando esisteva ancora un concetto di impresa in Italia, quando ancora esistevano in Italia imprenditori di tale vaglia.
Allievo di Alain Touraine, e in parte caudino di origini santagatesi. Sempre curioso, di multiforme vivacità culturale, costantemente desideroso di conoscere il riverbero locale dei meccanismi generativi della società contemporanea.
È stato infatti fin da subito incuriosito dall’esperienza del Tommaso Giaquinto «ritrovato» (l’immagine lo ritrae a Sant’Agata dei Goti, in compagnia di Lina Wertmüller, con in mano una copia del volume).
Che considerava un «esperimento di follia felice», mostrandone i connotati virtuosamente sovversivi in una terra, diceva, dove già al tempo si manifestavano i segni di un deserto culturale sempre più pervasivo. E quanto oggi siano patenti, questi segni non c’è chi non possa vederlo, come cerco di segnalare periodicamente.
Ricordo bene l’entusiasmo di De Masi riguardo quella idea che lo affascinava anche in relazione ai processi collaborativi tra pubblico e privato di cui era un antico assertore.
In particolare, mi diceva, il privato che lavora con il pubblico in ambito culturale al fine di conseguire risultati ambiziosi e importanti, come nel caso di quella esperienza del 1993, sarebbe stato un volano di «splendida concretezza» proprio in vista di una sua sperabile introduzione nel dibattito economico e della organizzazione dei processi produttivi.
Tutto questo in una terra di missione senza missionari, mostrificata nella propria miseria culturale e ormai quasi del tutto privata di strutture archetipiche non certo a causa di naturali processi evolutivi, ma proprio per via dell’intervento brutale delle logiche degenerative nel contesto di quello che già al tempo chiamavo antropologia del degrado.
E che lui ampliava ai concetti della economia quando virava tutto il concetto del degrado culturale in quello della società postindustriale, all’inizio di quel declino progressivo cui oggi riesce veramente complicato non osservare.
Una volta, per stemperare la mia insofferenza inutilmente furente, disse anche a me quel che talvolta usava ripetere. Si considerava più fortunato di Bill Gates, «Io a Roma entro nelle chiese e mi guardo Caravaggio quando mi pare, lui invece ha i codici di Leonardo, ma li tiene chiusi in cassaforte. A che serve?».
Aggiungendo poi che «in Valle Caudina – a Sant’Agata, Moiano, Airola – Caravaggio ce l’avete in ogni muro di tufo e in ogni piega del paesaggio che saprete vivere, lasciandolo a quelli che verranno».
Un’altra voce nitida si spegne, molte altre querule si affollano inutilmente. Sempre di più, come le rondini ormai soffocate dalle piume. E sempre di più sono soli coloro i quali ancora sappiano condividerne il rifugio della differenza. (Foto Michele Biscardi – Archeoclub Sant’Agata dei Goti)