Estasi e tormento: la speranza della vita più forte di un abisso

Redazione
Estasi e tormento: la speranza della vita più forte di un abisso
Estasi e tormento: la speranza della vita più forte di un abisso
Estasi e tormento: la speranza della vita più forte di un abisso. La sublime solennità dei luoghi collocati al di fuori dello spazio e del tempo. Il vago sentore del drammatico, dell’intenso, del tragico. L’inesorabile trascorrere del Tempo che fa calare, sopra ogni superficie, la sua patina di polvere, di antico. Di imperituro. Di eterno.

La mssione salvifica dell’arte

Resta l’Arte a ricordarci come alcuni luoghi siano templi della memoria, i soli a restituirci davvero la misura di come abbiamo speso il nostro tempo su questa terra. Resta l’Arte a dimostrarci come sia possibile cancellare, con un colpo di spugna, i confini che abbiamo tracciato a tavolino per separare la vita dalla morte. Il noto dall’ignoto. Il divino dall’inferno. L’ambiguità che ancora caratterizza la nostra relazione con essi.
A Caldaia Italia, sotto i portici del Cimitero Monumentale di Verona, fa bella mostra di sé una colossale opera in bronzo, l’ “Anelito fuggente”. Fu lo scultore Rupert Banterle, figlio del più sublime Neoclassicismo, a realizzarla nel 1914, su commissione dell’amico e poeta veronese Lionello Fiumi per la propria tomba di famiglia, in occasione della morte della madre, e ivi ritratto nel busto in bronzo.
Struggente. Tragico. Intenso. Il gruppo scultoreo rappresenta infatti una giovane donna ignuda, trattenuta con tenace passione da un uomo dalla possente, virile muscolatura, parimenti nudo anch’egli.
È la rappresentazione, tutta drammatica e personale, della Vita che trattiene disperatamente, pervicacemente, amorevolmente, quella speranza, quell’anelito alla vita stessa e all’infinito, nonché la giovane donna, in procinto di scivolare via, tra le braccia della Morte

Tormento interiore dell’artista

Il tormento interiore dell’artista prende forma dalle sue mani e, attraverso un moto di vorticoso avvitamento verso l’alto, condensa e materializza due figure che assumono consistenza e si fondono in un tutt’uno, partecipando dell’umana, cosmica sofferenza da cui sono circondate, tra le anime di marmo tutt’intorno.
Palpabile è il movimento che si avverte osservando l’opera. Palpabile è il divincolarsi di lei. Palpabile è la tensione dei muscoli così ben delineati di lui, dell’uomo-Vita; il trasporto con cui ostinatamente si aggrappa alla donna, nello strenuo tentativo di non lasciarla scivolare via e perderla per sempre nell’Oblio.
Nelle mille increspature della fine, dettagliata pergamena anatomica, il corpo dell’uomo stigmatizza ogni ferita, ogni solitudine, ogni pianto del mondo, e si accartoccia, si ripiega su se stesso nella sperimentazione di un dolore inedito.
Né è destinato a restarne immune il silenzioso giaciglio che tutt’intorno li accoglie. Esso si fa mare tormentato, materia cristallizzata da una violenta, allucinata tensione emotiva. E la passione, la passione intensa che irradia dai corpi degli amanti lascia presto il passo ad un che di vagamente spettrale, di glaciale; ad un presentimento di ineluttabilità. Di inquietudine. Di predestinazione.

Il sottile erotismo

E pur tuttavia, al tempo stesso, dai  due corpi così tenacemente abbarbicati l’un l’altro trasuda un sottile erotismo, una fine sensualità, a sua volta ispirata all’iconografia tutta michelangiolesca del celebre “Schiavo morente”. Una sensualità che, non a caso, ripropone proprio il simbolico abbraccio, l’ amplesso incestuoso tra la vita e la morte. Tra Eros e Thanatos.
All’epoca, una siffatta definizione per un’opera funeraria genera perplessità tra la critica letteraria: “realismo inopportuno”, lo definirono, pur riconoscendo l’altissimo livello artistico, plastico ed emotivo raggiunto dalla scultura. Altrettanto suggestiva è la posizione in cui essa si colloca. Ed è infatti in quel punto, all’ora del tramonto, che il sole calante crea fortissimi giochi di luce e di ombre, in special modo con la figura della giovane donna. Sicché essa, osservata dalla giusta prospettiva, sembra davvero slanciarsi verso l’alto, davvero elevarsi in direzione di un’altra dimensione attraverso i raggi luminosi.
Dimensione che riconduce al senso della vita, al mistero che l’avvolge e, ancor di più, alla sacralità, alla preziosità della stessa. Nel campo della coazione, è la triste esperienza dello spazio chiuso e soffocante. Della deiezione spirituale. Dell’inaridimento, della desertificazione interiori. In quello della libertà, invece, sono la spazialità aperta. L’aspirazione all’autenticità. La speranza della felicità.
È arduo raggiungere un punto di stabile sintesi fra tali spinte confliggenti. È arduo conquistare un’identità felice fra pulsioni tra esse in antitesi. E la composizione può talora darsi, al contrario, anziché in una condizione di armonia psicologica e affettiva pienamente realizzata, nella sofferta tensione propositiva, nell’impegno idealmente costruttivo, avvertito quale spinta inesauribile ed insopprimibile verso l’alto.

L’ambiguità lingistica

Per una meravigliosa e tremenda ambiguità linguistica, la morte e la vita sono, non a caso, ascritte alla medesima parola: “bios”. “Bíos” è vita. “Biós” è arco.  E così, noi non siamo che un cerchio incompiuto, imperfetto. Un arco, il cui inizio e la cui fine non coincidono. Solitari restare a riva, ad osservare le intemperie della vita, oppure salire a bordo, senza troppo curarci del viaggiatore di turno? Seguire le leggi del cosmo o dell’Io? Credere, o capire, di fronte a Dio, al mistero della vita e della morte?
Basta volgere lo sguardo ai secoli passati per trovare i nostri più naturali interlocutori, coloro che ci hanno preceduti nei nostri stessi interrogativi e che hanno fatto il controcanto al presente, ponendosi le domande ultime. Non importa quali le risposte che abbiano dato. Importa, invece, la loro, la nostra allergia al pensiero comune, tanto da averci offerto visioni diverse e rivali del mondo.
Importa il coraggio di sperimentare, in solitudine come in compagnia, cosa significa sopportare, supportare la verità quando la Vita ci viene a trovare. Finanche al fondo di noi stessi. Finanche quando costretti, letteralmente, alla più atroce cattività. A mangiare la terra. A sputare il fango. Ad ingoiare la polvere. A rimestare tra la cenere. Mentre bruciano, al tempo stesso, la mancanza di due ali dietro la schiena, e la lontananza, la nostalgia di una stella ad illuminare il cammino.
Se può valere lo stesso per il greco antico, che pur nella sua ricchezza linguistica ha associato quell’anelito impetuoso privo di oggetto, la heideggeriana “volontà di volontà”, al solo dio Pòthos degli Eroti, può dirsi altrettanto per ogni altra declinazione dell’umano sentire: per il russo “tocka”, che così traduce al suo grado più alto quel dolore sordo dell’anima, quel desiderio senza oggetto.
Quello struggimento che duole, quello spasimo mentale. Ed è, altresì, la sintesi tedesca della “Sehnsucht”, la malattia del doloroso bramare all’infinito il desiderio stesso, e della “Weltschmerz”, la cosmica stanchezza del mondo.
E in virtù di ciò, mi viene da pensare che proprio l’attenzione per la natura implacabile del desiderio, per il tormento dell’uomo consapevole, per l’interiorità goethiana e per il “sottosuolo” tipicamente dostoevskijano, sia il punto in cui le massime espressioni dell’umano sentire, siano esse di matrice culturale greca, tedesca, russa, e così via, si siano incontrate e si siano riconosciute come gemelle di spirito.

Lotta contro l’abisso

Quasi a ribadire che, da sempre, l’uomo è anelito infinito verso l’alto. Sforzo proteso alla libertà. Lotta inesauribile contro il limite. Nonché contro l’abisso e, probabilmente in fondo, anche un po’ contro se stesso. Contro quegli abissi che, nonostante tutto, abitano in ognuno di noi.
Perché, come il mito greco insegna, si combatte sempre contro qualcosa, contro qualcuno. Una parte di sé, quella che si è superata, un antico se stesso. Si combatte soprattutto per non essere qualcosa, per liberarsi. E, come scriveva Cesare Pavese, chi non ha grandi ripugnanze, né grandi aspirazioni, non combatte.
Ed è così che alcuni esseri, in particolare, sono come una corda costantemente tesa tra un’ancora che li trattiene in giù e un altro sogno che li tira in alto. Ma quanto tempo manca al suo spezzarsi? E soprattutto, quanto al suo ricomporsi?
Quanto tempo manca al suo librarsi in aria, lontano dagli argini, dai limiti, dalle catene autoimposte? Quelle che tengono un’anima ancorata al suolo, alle più impietose sabbie mobili, contro l’immensità, il mare aperto delle infinite possibilità?
Talvolta, può non bastare una vita intera. Ed ecco sopraggiungere, quando sovviene il momento di riflettere su se stessi e sulla propria esistenza, sul ciclo della propria vita, sul significato del proprio passaggio sulla terra, il senso del “troppo tardi”. Quello che non lascia spazio a seconde possibilità e che distingue l’uomo da ogni essere non senziente. Il rimpianto. Così drammatico da far risuonare nell’anima l’eco di qualcosa che mai è esistito nella realtà.

Il tempo del corsggio

Ma talaltra, invece, può bastare il solo tempo del coraggio. Di una decisione consapevolmente intrapresa, atta a volersi aggrappare tenacemente a quell’anelito di libertà, per quanto doloroso e sofferto esso sia.
Per poi, alla fine, solo così, solo così concludere il cerchio. Solo così, come frecce di quell’arco scagliate verso l’alto, e non come anime erranti, destinate a perdersi nell’oblio dell’ignoto.
Solo così, per tenersi stretta la Vita. Tenersela stretta, senza più lasciarla andare via.

Serena Fierro