Il nostro posto nel mondo del ” se solo “

Un invito a non voltarsi dall'altra parte di fronte alla sofferenza e alla violenza

Redazione
Il nostro posto nel mondo del ” se solo “

Il nostro posto nel mondo del ” se solo ” ( di Serena Fierro ).  Vedo, e vorrei non vedere. Sento, e vorrei non sentire.

Non so quand’è che sono diventata così “ipersensibile”, come mi rimproverano gli altri. Oppure, quand’è che s’è rotto il mare di ghiaccio dell’indifferenza dentro di me, dietro il quale mi ero trincerata; nascosta; protetta. Per non vedere. Per non sentire.
Eppure, adesso, non v’è più tragedia, eclatante o meno che sia, di fronte alla quale io non riesca più a ricacciare indietro una lacrima di tristezza. O forse, di rabbia. D’impotenza; d’inermità; di quel sentirsi sempre troppo piccoli: sempre una goccia nell’oceano, per un mare di malvagità sempre troppo grande. Tanto quanto il mondo attuale che lo contiene.
Vedo, e vorrei non vedere. Sento e vorrei non sentire.
Perché il dolore altrui, così come fors’anche la felicità, mi trapassa chirurgicamente l’anima, come un bisturi fuori traiettoria.
Il lamento di un gatto che patisce la sete davanti alla mia porta; il pianto di un neonato dall’altra parte del mondo; o quello di un vicino di casa, all’angolo della strada.
La morte di un 15enne, soltanto l’ennesimo: vittima della solitudine, dell’omertà; dell’incomprensione, della disperazione; della derisione e dell’altrui compiacenza. Di quello che ancora oggi falcidia tante giovani vite sin tra i banchi di scuola, con la complicità dell’altrui silenzio; e di chi, i sogni infantili, avrebbe dovuto custodirli.
Proteggerli. L’ennesima tragedia, soltanto l’ennesima, cui fa eco il solito, trito e ritrito “Si poteva evitare”. “Se solo”. “Se solo.”
L’ennesimo femminicidio. L’ennesima violenza senza apparente spiegazione, su una metropolitana dall’altra parte del mondo.
L’ennesimo omicidio, per il fatto stesso di “esistere”; di recare addosso la “colpa” di un determinato colore di pelle. Di occhi, di capelli. “Bianco” o “nero”, come la vita e la morte. E quelle sfumature nel mezzo, che non esistono più.
L’ennesima vittima sacrificale, immolata sull’altare della follia; del potere; della superiorità di genere. Di etnìa.
Di un sistema più grande di noi, che tutti ci vede, tutti ci coinvolge, tutti ci assolve e al contempo, tutti ci condanna. Innocenti e assassini; vittime e carnefici, ognuno dell’altro. E di se stesso.
Ognuno calato nella parte, ognuno nel proprio ruolo. Fino a che la scacchiera della vita non deciderà la prossima mossa: quale arriderà all’uno; quale arriderà all’altro. Chi sarà lupo; chi sarà agnello. In base ad un’arcana, assurda legge sancita dal Caso.
Un mondo che pare quasi, ormai, assurdamente capovolto.
Un mondo in cui la morte non è più triste, doloroso accidente; né pacifica, francescana “sorella”, parte finale del ciclo naturale di tutte le cose. Bensì, sadica punizione sancita da una mano altra. Mano che quasi mai è quella, sia pur in apparenza inspiegabile, inclemente, ma pur sempre imparziale, di Dio.
Perché oggi, oggi è di altro che si muore. Si muore di prevaricazione, di violenza; di sopraffazione; di follia gratuita: ormai triste realtà, di cui prendere spaventosamente atto. Come se, altrettanto normale, fosse vivere, sopravvivere in costante allerta. In costante autodifesa. Perché v’è chi legittima, premia il male; e ripudia, condanna invece il bene alla pubblica gogna.
Un mondo, ordunque, governato da una sola parola: “paura”. Paura del diverso; paura del diseguale; paura del simile come del dissimile. Paura di chi sta più “in alto”, così come più “in basso”, di noi. Paura di nulla e di nessuno. Eppure, di tutti. Di tutto.
E allora, vedo e vorrei non vedere.
Tremo, e vorrei non tremare. Di fronte a quest’angosciante senso di precarietà, d’incertezza, che inevitabilmente ci assale, quando né occhi né orecchie sanno più essere in grado di chiudersi o nascondersi dinanzi a siffatte tragedie.
Perché forse, ve ne sono troppe per un uomo soltanto. Per una persona soltanto. Per un mondo soltanto.
E perché, in fondo, vi sono tragedie e tragedie. Tragedie che si consumano in sordina, in silenzio, dietro le quinte e la quotidianità di tutti i giorni.
Tutti i giorni, lontane da sguardi altrui, sì da diventare orribilmente invisibili. E sino a quando ormai non è troppo tardi.
Tutti i giorni, mentre ciascuno di noi è troppo impegnato a scavarsi la via attraverso la corteccia del bozzolo, per non rischiare di perire, marcire, soffocare lì anch’esso. Nella propria strettoia verso la libertà.
Ognuno in corsa per la propria esistenza, barcamenandosi tra soluzioni e problemi, da cui soltanto un rumore ci distrae. E soltanto quand’è troppo forte, troppo eclatante, troppo clamoroso: troppo difficile da ignorare per non voltarsi dall’altra parte.
Ognuno di noi troppo piccolo, o forse, semplicemente, troppo disperato, per non tentare di salvare, dapprima, la propria esistenza. Per poi, solo poi, solo dopo, poter forse sperare di salvare anche quelle altrui.
Allora, vedo e vorrei non vedere. Sento e vorrei non sentire. Eppure, nonostante tutto, mai riesco, mai veramente, a voltarmi dall’altro lato.
A non abbeverare quel gatto. A non ingegnarmi per far cessare quel pianto, sia pur dietro l’anonimato. A non denunciare. A non far sentire la mia flebile voce, sia pur misera goccia nell’oceano che mai smuoverà, di un solo fremito, le onde. A non tentare di disseminare, in giro, semi di bellezza, avulsa dal mondo. O di sottesa speranza.
A non levare in alto una parola, una soltanto. Eppure, sovente, unica, sola, forse vera arma che ancora abbiamo in mano. E che davvero ci resta.
E se solo volessimo, forse più potente di qualsivoglia grilletto; di qualsivoglia spada; di qualsivoglia pugnale, radiazione atomica o cataclisma con cui abbiamo reso il mondo, questo mondo, il posto peggiore in cui sostare. In cui vivere.
E allora, forse più forte di qualsiasi rumore. Di qualsiasi tremore; di qualsiasi paura; di qualsiasi tenebra. E magari, alla fine, per una volta soltanto, di qualsiasi morte.
“Se solo”. “Se solo.”

Serena Fierro