Il nudo dolore davanti alla tragedia, 23 anni fa il terremoto di San Giuliano di Puglia

Una riflessione di Serena Fierro sulla furia distruttrice del terremoto

Redazione
Il nudo dolore davanti alla tragedia, 23 anni fa il terremoto di San Giuliano di Puglia

Il nudo dolore davanti alla tragedia, 23 anni fa il terremoto di San Giuliano di Puglia( di Serena Fierro ). Tremano, le mani mentre scavano. In cerca di un respiro nascosto, di una voce lontana.

Tremano, le gambe mentre vagano, lungo strade che non si riconoscono più.
Vacillano i nostri progetti; crollano le nostre speranze. Sotto coltri di macerie d’una terra che inizia, insospettabilmente, a tremare.
Perché vi sono giorni in cui la terra, come un cuore ferito, scuote inavvertitamente se stessa: non avvisa, non chiede; non perdona. Semplicemente, ricorda d’esistere. E lo fa, sovente, con un tremito profondo; con un sussulto improvviso. Eppure, tale da sconvolgere, in un istante, case, vite, certezze. Esistenze.
Era il 31 Ottobre dell’ormai già lontano 2002 quando, nel piccolo comune di San Giuliano di Puglia, poggiato sulle colline ventose nel sud del Molise, la scuola elementare “Francesco Jovine” si piegava al respiro della terra, collassando tragicamente su se stessa.
Un’unica, potente scossa di terremoto, quasi al sesto grado della scala Richter, senz’appello né via di fuga. ll futuro di ben 27 bambini destinato a spegnersi irrimediabilmente tra le macerie; e un eterno, assordante silenzio a sostituirsi, di lì a poco, alle loro voci bianche per sempre.
Una mattina, quella di quel 31 Ottobre di 23 anni fa, in cui i sismografi iniziano a vibrare, e il rintocco della morte sopraggiunge alfine col suo ineludibile, puntuale verdetto, alle ore 11:33. Ed è proprio allora, in quel preciso istante, che parte del plesso da sempre asilo di scolaresche elementari e materne, s’infrange rovinosamente su se stesso, sino a non lasciare quasi più nulla di sé.
Soltanto ferro, cemento, polvere. E corpi infantili, esanimi, di anime innocenti già pronte per la festa di Halloween, ivi intrappolati per sempre. Per quasi sadico, amaro scherzo d’un assai crudele destino.
Una tragedia per la quale, da quel momento in poi, il Molise non è mai più stato lo stesso; né poté fare a meno di diventare triste epicentro del Mondo e simbolo insieme – forse solo uno dei tanti – dell’inaudita violenza, dell’imprevedibilità con cui il sisma, ogni sisma, sovente lacera i cuori.
La forza bruta, nata dalle visceri della terra, si propaga inarrestabilmente verso l’esterno. Rompe i riti, la quotidianità di qualsivoglia comunità, pur piccola o grande che sia. Ne cancella, in un solo istante, le case, i volti, le storie.
I ricordi di una vita. Sino a lasciare, sovente, una ferita indelebile nella memoria, tanto collettiva quanto intima e personale.
E non solo, pur tuttavia, per la devastazione materiale che impone. Ma altresì, soprattutto, per il dolore umano; per il senso di profonda vulnerabilità cui inevitabilmente espone ogni cosa: il territorio; le strade; le piazze; non meno che noi stessi. Perché in pochi istanti, il destino di ognuno di noi può mutare tragicamente per sempre.
E pur tuttavia, è esattamente ciò che ancora oggi si respira in Campania, le cui recenti scosse, tra le colline dell’Irpinia e l’avellinese, fanno tuttora tremare non solo le strade. Bensì le anime, le persone, con lo stesso tremulo, familiare stupore nel cuore e negli occhi.
Perché ogni volta che il suolo si muove, l’uomo riscopre la sua nudità. E noi con esso, ci sorprendiamo a comprendere d’improvviso come la nostra casa, il nostro paese, le nostre città – quelle che pure crediamo eterne – altro non siano che un fragile disegno sul volto mutevole, e pur sempre imprevedibile, del mondo.
Che ogni scossa; ogni fremito; ogni boato riecheggiano nondimeno il ritorno ad un’antica quanto cruda verità: che l’uomo è ospite, non padrone, del mondo.
Camminiamo in equilibrio apparentemente stabile su una terra che pulsa, vive, respira; si muove e s’agita sotto le nostre stesse suole. Eppure, dimentichiamo. Costruiamo, edifichiamo. C’illudiamo di perdurare, di dilazionare una pur sempre precaria esistenza; ergiamo città in apparenza sempre più solide, quali promesse d’eternità, su fragili fogli di carta.
Eppure, sovente, è bastevole un soffio del mondo, tanto fugace quanto inatteso, a far crollare i nostri progetti; a ricordarci come le pietre, finanche, possano soggiacere ai rintocchi del tempo. E alfine, anch’esse morire.
E in siffatto tremore, come in siffatta scoperta, nondimeno riaffiora una paura che da sempre attraversa i secoli: la medesima che, in quel “De Reditu Suo” del già lontano 414 d.C., lo stesso Rutilio Namaziano, poeta e funzionario romano del V secolo d.C, dovette sperimentare su di sé allorquando – di ritorno da Roma alla sua Gallia natia – vide l’Impero disfarsi come sabbia tra le dita del tempo.
Le città disfatte; i templi spogli, abbandonati; le coste deserte: la grande Roma, un tempo “caput mundi”, eterno cuore dell’Impero, ora madre ferita. Fulgida sposa ormai spoglia, derelitta; ridotta a mera ombra ovattata, sbiadita, di sé.
E Rutilio, Rutilio stesso, solitario viandante tra le rovine alla ricerca d’un senso; d’un filo conduttore ancora capace di unire l’uomo alle sue origini: alla sua dignità. Un uomo che osserva la fine di un’epoca; e pur tuttavia, ancora ricerca la sua speranza tra le rovine, in un viaggio che non soltanto sa di ritorno. Bensì, di nostalgico addio.
Giacché ogni pietra spezzata, ogni frammento di muro, ogni parete instabile ci parla d’un comune destino. Ci grida e ribadisce un’altrettanto comune, sia pur quotidianamente velata, verità: tutto ciò che l’uomo costruisce, finanche ciò che crede immortale, è destinato inevitabilmente – e per sua stessa natura – a tremare.
Una verità scomoda che, in quanto tale, siamo inconsciamente portati a celare finanche a noi stessi, quale invalicabile ostacolo al placido fluire del vivere, laddove esibita con perentoria evidenza dinanzi ai nostri stessi occhi.
Perché, esattamente come Rutilio, noi medesimi avvertiamo oggi tutto il senso di precarietà dell’umano. Dell’esistere.
Le pietre della sua amata Roma cadono non diversamente dai tetti delle nostre stesse scuole; dei nostri edifici; dei nostri palazzi. Dei nostri sogni di sicurezza. Colossi moderni, case di cemento armato, torri di vetro e d’acciaio si piegano non diversamente da quegli stessi solenni, antichi templi. Quali sogni di cera al sole riarsa.
E noi medesimi, tra la polvere, ancora una volta apprendiamo dolorosamente che la sicurezza è una forse solo amara illusione. Che la terra, madre e giudice al tempo stesso – che pur ci nutre e conserva; che pur ci partorisce e a suo modo riaccoglie, insieme alle nostre più mirabili opere, non meno che alle nostre più autentiche fragilità – può benissimo ricordarci, in ogni istante, la friabile misura di cui noi medesimi siamo fatti.
E il tempo, quale silenzioso ed imperscrutabile magnitudo, scuote le civiltà d’ogni epoca; ed altrettanto impietosamente, le spoglia d’ogni arroganza.
Non dissimile dal suo è allora il nostro tempo, il nostro angusto presente. E se Rutilio ben lo intuiva secoli fa, osservando il mondo che crollava dinanzi ai suoi stessi occhi, noi medesimi lo riscopriamo, ancora oggi, nel boato d’una scossa. Nel silenzio che segue. Nel pianto di chi resta.
Perché ciò che resta, quando finanche le lacrime si sono esaurite, è sovente nient’altro, in apparenza, che il solo sguardo. La memoria, il silenzio, sia pur carezzevoli e dolenti.
Ma altresì, a ben vedere, sotto quelle stesse pietre, anche il desiderio di rinascere; di scavare nelle nostre identità le fondamenta del prossimo giorno che verrà. Di lasciare sotto la coltre di polvere soltanto il senso di smarrimento, di vuoto. D’incertezza, di paura. E con esse, tutte le possibili amarezze.
Di far sì che sia il tempo a portarci con sé; e che sia l’alba, e l’alba soltanto, a risplendere alfine sulle luci delle nostre multifunzionali città. Di leggere in esse, non meno che sui nostri volti, la volontà di reagire e combattere; l’orgoglio di rialzarsi e rinascere.
Ancora una volta. Perché talvolta, il dolore resta imprigionato per sempre nel luogo che lo ha vissuto, chiuso nel cuore della terra senza più andare via. Lì, dove ognuno di noi reca con sé le sue nude cicatrici, e il tanto agognato risveglio sembra non sopraggiungere mai.
Eppure, miracolosamente, dopo ogni rovina, l’uomo si rialza, si rialza sempre, ed altrettanto indefessamente continua a ricostruire. Con mani tremanti, rimette insieme quei frammenti di sapienza e di mura costantemente dilapidati dal tempo e dalla tendenza dell’uomo stesso a dimenticare; pianta semi nelle crepe; ridisegna il futuro sulle macerie.
V’è in lui una forza insondabile e misteriosa, che costantemente lo induce a riedificare liddove il tempo ha distrutto; a colmare i vuoti liddove la pioggia battente ne ha eroso i confini. A credere, ancora e ancora, nella luce.
Sicché è forse questo il segreto della sua grandezza: sapere che tutto, da un momento all’altro, può crollare; e pur tuttavia, amare lo stesso. Ed è forse questo, nondimeno, che alla fine ci salva e resuscita: la consapevolezza che la precarietà non è sempre solo un’atroce condanna; bensì, talvolta, il viatico verso nuove, inaspettate possibilità.
Perché, come sovente un impero rinasce dalle sue stesse rovine, così l’uomo, ogni qualvolta la terra trema, impara nuovamente ad essere umano. E quand’anche un impero, ogni volta, cessi d’esistere, così la vita pur sempre continua, nonostante tutto, il suo canto sommesso. Eppure, trionfale.
Così, tra passato e presente; tra antichità ed attualità; tra Molise ed Irpinia, la terra continua a parlare, da sempre, la stessa lingua. E da sempre a soffiare al cuore dell’uomo.
Ad insegnarci che, se la stabilità è forse un inarrivabile miraggio, la speranza può essere invece solida verità; che ogni rovina, ogni frammento, ogni crollo, se guardati con cuore umano, possono altresì trasformarsi in nuovo inizio; che fino a quando la terra continuerà a tremare, noi pure saremo vivi. E nostro compito sarà, malgrado tutto, ascoltarla, comprenderla; e sempre, pur sempre, ricominciare.
Non a caso, in uno dei suoi più emblematici, commoventi versi, così Rutilio conclude:
“Ordo renascendi est crescere posse malis”. “Il principio della rinascita è riuscire a svilupparsi attraverso le difficoltà”.
Un invito a riflettere sulla capacità di risorgere dalle proprie macerie, dalle proprie rovine; nonché un messaggio che, a distanza di secoli, risuona ancora oggi con sorprendente, intramontabile attualità.
Perché è forse proprio questa l’immortalità che Rutilio intende insegnarci ed affidarci: il desiderio di rinascita e la sete di vita che, finanche nei luoghi più primigeni, logori e disastrati, intervallati dal crollo e dalle rovine, è ancora possibile dissotterrare, cogliere e raccogliere. E così, alfine, e ancora una volta, vivere e rivivere.

Serena Fierro