La vertigine della lista di Giacomo Porrino
Un'attenta riflessione sulle prossime elezioni amministrative a Moiano
La vertigine della lista di Giacomo Porrino. È il titolo di uno degli ultimi libri scritti da Umberto Eco nel 2009, e in sintesi tratta dell’uso della lista come pretesto conoscitivo della letteratura e dell’arte attraverso l’artificio del dualismo fondato sulla dialettica tra forma e lista. Dove la forma è una gerarchia chiusa, non emendabile, in relazione alla lista che presenta invece una rappresentazione di tutto quello che potenzialmente è suscettibile di continui cambiamenti.
Il voto a Moiano
A Moiano, come in altri comuni, si voterà tra meno di un mese per il rinnovo del consiglio comunale in concomitanza con le elezioni per il rinnovo del parlamento europeo. E conosceremo a breve quali saranno le liste che intendono competere alla guida della amministrazione locale.
Quali, quante, da chi e soprattutto per fare che cosa. Perché una idea, una qualche fantastica idea, dovranno pur averla quelli che desiderano candidarsi, viceversa davvero non si capirebbe la ragione di assumere un onere così pesante se non si ha nemmeno l’entusiasmo di qualcosa cui credere.
Forma e lista, dicevo. Certamente in questo caso la forma è senza dubbio il simbolo elettorale che solitamente mostra una compagine che si candida ad amministrare, riassumendone e in qualche modo connotandone l’identità. La lista propriamente detta è invece l’insieme delle persone che provano ad assumere l’impegno di farlo. Una lista è in questo senso un catalogo umano, una sequenza di intenzioni, una successione di speranze si spera non completamente velleitarie.
Almeno due liste
Al momento non è dato sapere quante e quali liste si presenteranno in campagna elettorale. E anzitutto non si può che augurarsi ve ne siano almeno due. Ma realmente competitive, senza infingimenti e tartuferie da sottoscala.
Una lista unica esporrebbe impietosamente la forma del degrado culturale e civile mai osservato prima nella storia politica di questo piccolo comune, peraltro esponendo teoricamente la comunità a una doverosa attenzione da parte delle autorità. Ma peggio, molto peggio della iattura di una sola lista in campo, sarebbe solo una lista corredata da una lista civetta al solo scopo di divorare anche il ruolo fondamentale della minoranza consiliare, garantendosi di fatto un governo privo di ogni ostacolo.
Ma posso solo sperare come tale circostanza non sia nelle speranze di nessun attore presente sullo scenario politico locale. Viceversa sarebbe a dir meno allarmante. Come allarmante sarebbe colui il quale seguisse la tentazione della deriva plebiscitaria, di accumulare cioè compulsivamente una enorme quantità di voti seguendo più un approccio mercantile che quello propriamente riferito alla pratica democratica.
A nessun sindaco eletto, se minimamente furbo, converrebbe stravincere. Così come a maggior ragione nessuno chiamato alla carica di minoranza potrebbe rinunciare di fatto al mandato assegnato dagli elettori. Anche se gli elettori della lista soccombente dovessero essere, poniamo, soltanto dieci, ebbene quei dieci avrebbero tutto il diritto di essere rappresentati. E con tutta la forza del caso.
Ma prima di ogni altra considerazione, prima che la parata dell’inchiostro e della carta affolli il nostro quotidiano nelle prossime settimane, forse varrebbe la pena chiedersi altro. Accogliendo anche le suggestioni di Lina Iaquinto, con la quale si ha modo di spartire sovente qualche riflessione, è non più rimandabile chiedersi se abbia ancora una utilità, una giustificazione, un senso la presenza di una amministrazione comunale in una realtà così piccola e ridotta a tal segno.
A che serve un sindaco?
A che serve, infatti, un sindaco o una giunta comunale se le scelte amministrative entro le quali muoversi sono di fatto determinate da organismi tecnici interni? Serve davvero un sindaco, quale che egli sia, di qualunque comune, il quale si limita ad accogliere questo o quel finanziamento che gli uffici variamente reperiscono senza che spesso siano realmente riferibili al contesto di quella specifica comunità?
Bisogna invertire questo ordine delle cose, indifferibilmente. Bisogna avere delle idee, plausibilmente poche ed efficaci, da rendere concrete attraverso la ricerca di opportuni finanziamenti. Non il contrario. Viceversa continueremo a essere investiti da flussi di danaro che giustificano se stessi con un qualche pretesto privo tuttavia di alcun legame con il territorio. Questo è un problema che si rileva attualmente sul piano generale, e purtroppo quello locale non fa eccezione.
Ma se un amministratore serve soltanto ad acciuffare finanziamenti, spesso celebrandoli come una epopea meritoria di toni omerici, senza avere uno straccio di visione delle cose realmente necessarie alla comunità che si propone di amministrare, forse sarebbe il caso di affidare la gestione di queste preziose faccende direttamente a coloro che hanno le capacità tecniche di farlo. Non c’è bisogno di altro, non c’è bisogno né la possibilità di sprecare stipendi e gettoni di presenza ulteriori.
Ho già scritto poco tempo fa riguardo quello che ogni candidato dovrebbe ben guardarsi dal fare, nel caso residuale fosse intenzionato a essere credibile. Anche in questo senso, sono sufficientemente disilluso per sperare di essere smentito in qualche modo.
Vedremo il già visto con alcune buone intenzioni presto divorate dalla mediocrità di un sistema ormai inviluppato su se stesso. Ma forse è bene rammentare un punto che dovrebbe avere la massima considerazione da parte di tutti.
Le idee ed i consigli di Salman Rushdie
Proprio domani, Salman Rushdie presenterà a Torino il suo ultimo libro, Il coltello: meditazioni dopo un tentato assassinio. E lo scrittore indiano ha dichiarato senza girarci tanto intorno, in riferimento all’atteggiamento del potere politico nei riguardi della libera manifestazione del pensiero, che «i politici dovrebbero farsi la pelle un po’ più dura, perché un politico al giorno d’oggi oltre ad avere grande potere ha anche molta autorità e quindi è normale che qualcuno fra la popolazione ne parli direttamente, magari male».
Aggiungendo, con nettezza, riferendosi all’attuale Presidente del Consiglio italiano: «Io a questa signora darei un consiglio, di essere meno infantile e la inviterei a crescere». Ed ecco il punto centrale, il nodo gordiano nel quale soffoca tutto il problema della partecipazione civica contemporanea, sempre più bandita e ostracizzata.
Chi è chiamato a svolgere un ruolo pubblico, a qualsiasi livello, non può eludere il primo e indefettibile dovere di comunicare il proprio operato continuamente e con trasparenza. Deve dar conto del proprio agire, motivandolo sempre e comunque. Senza mai anche solo dare l’impressione di farlo controvoglia o, peggio, negarlo come purtroppo è toccato vedere specialmente negli ultimi venti anni.
Dissenso, diritto inalienabile
E soprattutto ogni amministratore, sia di maggioranza che di minoranza, devono soggiacere al principio inderogabile secondo cui il dissenso è un diritto inalienabile e non emendabile. Il dissenso lo si affronta con coraggio e senza protervia, spiegando pazientemente, argomentando come si può.
Ma non evitandolo, arrivando talvolta anche al punto di esercitare ogni forma di intimidazione. Chi, tra i prossimi candidati, non si sentirà in grado di assolvere questo primo dovere civile sarà bene che resti tranquillamente a casa sua. E che nessuno sia sfiorato dalla tentazione di seguitare nel pessimo malcostume di accumulare voti per poi asserragliarsi in un municipio dal quale non uscire per i successivi cinque anni.
Con gli elettori si ha il dovere – e il piacere – di parlare soprattutto dopo il voto, non soltanto prima. E si ha il dovere di parlare con gli elettori, anzitutto quelli che avranno votato altro. Perché non si è in un bar, dove si è soliti parlare con gli avventori amici, ma in una comunità dove si deve parlare anzitutto con chi ha opinioni diverse.
Anche profondamente diverse. E ciò non è – meglio ribadirlo – una concessione benignamente accordata dell’eletto di turno, è un dovere. Chiaro? Un dovere. Se qualcuno ha problemi di tenuta egotica, se sconta qualche deficit temperamentale che non gli permette di affrontare efficacemente questo compito così importante, resti pure a casa sua e non ci faccia perdere del tempo prezioso. Queste non sono certo intuizioni rivoluzionarie di mirabolanti teorie politologiche à la page.
No, è soltanto un dettame di ecologia politica e umana, peraltro ben chiaro agli amministratori di un tempo. Abituati ancora a incontrale le persone, ad affrontarle, a scontrarcisi quando necessario. Giammai evitandole. Altra generazione di persone, altra fattura umana, altra temperie culturale, si sa bene. O forse qualcuno ancora lo ricorda.
Ambiente, agricoltura e servizi
Programmi? Ho già scritto recentemente a riguardo, non penso di aggiungere altro. Sarebbe necessario altro spazio e non posso abusare di ulteriore pazienza e attenzione. E però almeno mi sia permesso poggiare sul tavolo tre indizi, tre parole chiave che permettono di avere tre visioni in relazione alla vocazione territoriale di un comune come questo. Ambiente, agricoltura, servizi. Il programma è tutto qui, il resto è materiale per inchiostro. Per molto, troppo tempo ci si è smarriti dentro l’equivoco secondo cui per ogni comune dovesse esservi senz’altro la presenza di un’area di insediamento industriale. Un falso storico ormai vistosamente smentito.
Ogni territorio ha la sua vocazione, e quella di Moiano certamente non è quella industriale. Non lo è mai stata oltretutto, perché semplicemente la sua vocazione è altro. Ed è un altro che non si rincorre negli arcani dimenticati di piramidi inesistenti, o rifugiandosi in comodi anglicismi per celare la propria inadeguatezza . È semplicemente sotto e sopra i nostri piedi. Ci viviamo dentro senza accorgercene.
Il dovere di conoscere il paese
E ancora una volta penso sia utile ribadire un concetto che potrebbe evitare sorprese poco gratificanti. Non ci si può fidare di qualcuno che afferma voler amministrare un paese che non conosce. E se non lo conosce, o lo conosce approssimativamente, vuol dire che non lo ama. E se non lo ama, non amerà neanche chi lo abita. È bene lo ricordino gli elettori, ogni scelta sbagliata nel voto ricade non solo su se stessi, ma proprio su tutti gli altri.
E siccome di territorio si parla, poiché non è del tutto semplice evitarlo dal momento che ci vivremmo dentro, allora non è una cattiva idea in questo momento esortare, ancora una volta, i candidati a non imbrattare gli spazi pubblici con manifesti e altra tipologia di comunicazione elettorale.
Perché prima di tutto è illegale, ma prima ancora è indecente. E di più ci fornirà un metro di misura della qualità umana dei candidati. Se infatti qualcuno si proclamerà come un indomito figlio di questa terra (ricordate gli «amanti» del paese?) proprio mentre la sporca malamente con affissioni illegali, avremo la certezza su chi non votare.
Merita fiducia chi ci promette di prendersi cura di casa nostra proprio mentre la insozza senza scrupoli? Sono quasi venti anni che si cerca di sollevare questo problema, solo molto di rado registrando qualche riscontro. Inviterei i candidati a pensare semplicemente che non saranno votati sul numero dei manifesti affissi, né sulle automobili elettorali più chiassose. Anche in questo caso, non mi perdo in illusioni di essere sorpreso. Ciò non di meno è bene ribadirlo.
Votare qualcuno degno di fiducia
E qui mi rivolgerei direttamente a tutti quelli che avranno intenzione di recarsi alle urne per votare. Ecco, bisogna ricordarsi di votare chiunque sia ritenuto degno della nostra fiducia. Ma deve essere una manifestazione libera di quella fiducia. Perché se non c’è quella fiducia non c’è più neanche la libertà.
C’è altro, c’è asservimento, c’è servilismo, c’è opportunismo, c’è indifferenza. La complice più pericolosa di ogni peggiore manifestazione di potere. E dunque allora che si voti, se si vuol votare, ma lo si faccia in libertà e non per obbedire ad alcuno.
Vigilare sulla libertà di espressione
Non per timore di alcuna minaccia. Per favore, fatevi il favore di essere liberi. E mi permetto di invitare tutte le autorità preposte allo svolgimento corretto delle operazioni di voto affinché siano evitate con ogni attenzione gli elementi che impediscono la libera espressione di voto nel seggio elettorale.
Sventando con ogni mezzo tutte quelle pratiche illegali di coercizione e controllo del voto. MI riferisco in particolare alla introduzione nel seggio di telefoni e strumenti elettronici in grado di registrare il voto per essere poi esibito a terzi. Inutile dire quanto questo sarebbe grave e umiliante, per tutti. Se qualcuno dovesse subire simili richieste, non esiti a denunciarle subito alle forze dell’ordine. E, nel caso del seggio elettorale, al presidente del seggio. Il quale, ricordiamolo, è tenuto alla correttezza delle operazioni di voto. Evitando quindi accuratamente l’introduzione di simili strumenti all’interno del seggio.
Il potere di una crocetta
«Prendiamo il sentiero paludoso per arrivare alle nuvole», così Matsuo Bashō (1644-1694) in un suo prezioso haiku. Ora come è del tutto evidente sono molto scettico sulla possibilità di riuscirvi a Moiano. Il rischio di una palude senza alcun sentiero è ben nitido, nitido perlomeno a quanti ancora abbiano la libertà di rendersene conto.
Nelle realtà comunali molto piccole, che attualmente attestano marginalità sociale, depressione culturale e inedia economica, molto probabilmente in simili condizioni non si arriverà mai alle nuvole.
Però sapremo quantomeno che Matsuo Bashō è esistito, scrivendo un giorno la storia di una speranza in ventuno sillabe. Noi non avremo a disposizione un gruppo di sillabe, ma solo una crocetta. Da un solo grafema, la crocetta, passa la maniera con cui si vivrà per i prossimi anni. Fossi un elettore di Moiano, ci penserei abbastanza seriamente.