Memoriae non olet
Memoriae non olet. Negli ultimi trent’anni si è potuto assistere a una cospicua proliferazione dell’associazionismo culturale o ricreativo, che così per convezione si è soliti definire poiché occorrerebbero invece ben diverse e individuate definizioni.
Infatti, tranne rare, troppo rare, eccezioni nulla di tutto questo ha potuto lasciare un segno che avesse una validità indiscutibile. Troppo spesso abbiamo dovuto vedere proposte connotate dalla più disarmante inconsistenza, che quasi sempre si sono risolte nella ricerca della passerella di turno, di un proscenio un tanto al chilo.
Dunque completamente inutili. E dannose se si considera come queste pieghe di velleitarismo attraversato da ansie di esibizione, siano state sovente sostenute dal danaro pubblico, rovinosamente sperperato.
Non è un atteggiamento nuovo quello del potere politico e amministrativo versato nella cura di clientele di questo tipo, ma a partire dagli anni Duemila tale fenomeno ha assunto una marca molto più forte e pervasiva.
Non è beninteso la ricerca di un colpevole, quanto affermo, è ben diverso e più problematico se possibile. La saldatura tra la totale inadeguatezza delle proposte avanzate e l’esigenza della politica di farle proprie nel tentativo di intercettare il consenso, ha dato origine a una vera antropologia del degrado.
Il combinato disposto tra anglicismi recanti il vuoto pneumatico, «Caudium» spalmati in ogni dove, Pro Loco troppo spesso impegnate in tutto tranne che nei luoghi che dovrebbero promuovere ma che di fatto non conoscono, e la povertà culturale delle amministrazioni ai vari livelli istituzionali, determinano una progressiva desertificazione sociale, politica, culturale che è perlomeno complicato negare.
E che cosa mai sarà la cosiddetta politica culturale locale se non la forma dell’amore e della passione per la propria terra portata dentro azioni organizzate e coerenti? E quale forma d’amore per la propria terra prevede la più totale ignoranza di che cosa essa sia?
Quale «politica culturale» sia ipotizzabile senza una necessaria conoscenza che ne delinei gli scopi e le prospettive? Ed ecco, in assenza di tutto questo, e per mera conseguenza, il florilegio di contribuzioni, più o meno cospicue, distribuite dagli enti locali senza alcun criterio, senza alcuna speranza di significazione.
Ed ecco, schiere oplitiche di ierofanti in perenne petizione di sostegno pubblico, immaginando immancabilmente di averne pieno merito. Ed ecco, processioni di sindaci e assessori che non conoscendo niente tuttavia dispongono di tutto, piccoli e inconsapevoli scherani del vorrei ma non posso. Ed ecco, l’indifferenza di tutti gli altri verso qualcosa che invece li riguarda molto più profondamente di quanto riescano a percepire.
La memoria non puzza, malgrado i quotidiani e involontari tentativi di seppellirla sotto il marcio della mediocrità involontaria, la più insidiosa. La memoria non puzza, chiaramente, ma il danaro invece non emana fragranze altrettanto preziose. Se poi la memoria, o se si vuole la cultura in generale, sono adoperati come treppiede per giustificare la gestione curtense del potere, rendono il danaro – e soprattutto chi lo usa in tal modo – ancor più nauseabondo.
«Portate con voi l’esempio di una moralità teatrale per un mondo migliore e più buono. Non dimenticate: in epoche oscure le luci più tenui brillano come stelle».
Così scriveva Giorgio Strehler ai lavoratori del Piccolo Teatro, nel 1996.
Ed è fin troppo evidente come non provandoci neanche a seguire queste stelle, magari attraversando ombre preziose, sia sempre più immanente il rischio dello scivolamento in un provincialismo culturale senza fissa dimora, in una marginalizzazione autoreferenziale disperata e arrogante che porta soltanto a essere indefettibilmente irrilevanti.
Giacomo Porrino