Moiano: cronaca di un crollo annunciato

L'ennesimo crimine della memoria denunciato dal nostro Giacomo Porrino

Redazione
Moiano: cronaca di un crollo annunciato

Moiano: cronaca di un crollo annunciato( di Giacomo Porrino ) . Com’è noto forse a molti, ogni manufatto – sia esso architettonico, pittorico, scultoreo, lapicida, tessile, cartaceo, materiale o immateriale – è fatalmente sottoposto alla cosiddetta ingiuria del tempo.

Ma la ingiuria del tempo è la escoriazione ipocrita del concetto di incuria. Si scrive cioè ingiuria del tempo ma si legge incuria. E il problema è che mentre il tempo non prevede responsabilità in ordine all’umano, l’incuria invece le presenta eccome. In sintesi, non è il tempo che porta danni ma l’incuria degli uomini.

Non so ben dire da quanto, e sarebbe interessante acclararlo, ma il fatto è che una parte delle strutture di copertura del lavatoio pubblico di Moiano sono crollate rendendolo di fatto inaccessibile. Inaccessibile dopo essere stato abbandonato.

Per non tacere dei danni causati alla struttura da una colmata completamente impropria che ne ha nel tempo aggravato i fenomeni di umidità. E in questo senso non è difficile prevederne un altro cedimento strutturale.

Un luogo speciale, quello di Varlata, dove un antico lavatoio esisteva ben prima della costruzione di quello attuale. Del resto l’intrigo di opere antropiche e di risorse naturali legate all’acqua e alla scafa fluviale dell’Isclero trova in questo apogeo della Valle Caudina l’apice più emblematico del rapporto tra uomo e natura come in non molti altri luoghi si ha l’occasione di poter vedere.

Altro che «beni architettonici minori» (sempre più affollata è la suburra delle terminologie farlocche e involontariamente ilari, sebbene variamente e saltuariamente in voga), il lavatoio pubblico di Moiano si inscrive in un contesto ambientale di grande significato storico e ambientale che investe l’insieme della Valle Caudina.

È proprio a partire dall’appendice valligiana di Moiano e Airola, infatti, che il vecchio Faenza, oggi noto a tutti come Isclero, sviluppa la sua portata più forte. Quella che determinerà nel corso del tempo la nascita di palinsesti economici fondati sulle strutture molitorie tra le più importanti del comprensorio

. L’uomo e l’acqua, da sempre. La forra dell’Isclero muta in questi luoghi in uno straordinario insieme di fontane, fontanili, lavatoi, sorgive, polle, canali collaterali, orti irrigui, architetture rurali, fabbricati accessori alla irreggimentazione idrica, cisterne, centimoli, ponti, acquedotti antichi e moderni.

Tutto in una cavea mirabile dove l’uomo ha saputo disegnare la propria esistenza legandola alla ineludibile presenza dell’acqua. Tutto è da intendersi ai nonni e ai bisnonni di quanti abitano queste contrade oggi, i quali solo sanno a malapena della esistenza di un fiume, da qualche parte laggiù.

Si sbaglia quando genericamente e frettolosamente usa dirsi che una comunità, in questo caso Moiano, ha dimenticato questa preziosità. Poiché per dimenticare occorre necessariamente conoscere, almeno superficialmente.

Qui siamo invece in presenza di una vera denegata conoscenza, l’antico teatro naturale e antropico di Varlata in questo senso non è stato dimenticato perché non è mai stato conosciuto. Non si dimentica ciò che non si conosce, lo si abbandona.

E per mera conseguenza questo non costituisce alcun problema per i contemporanei, volti malamente nel vuoto sempre più pervasivo di un tedio mediocre e senza destino.

Se solo, i contemporanei, avessero una pur flebile idea di come questo pezzo di terra, percepito oggi come anonimo e di transito, sia stato in realtà una delle strutture territoriali più importanti della Valle Caudina con – per esempio – il suo antico ponte Verricello, perno fondamentale delle irradiazioni stradali che legavano il Medio Volturno con il lato nord della valle e quindi con l’Appia fino a Benevento, forse ne ricaverebbero un qualche piccola suggestione.

Forse addirittura un moto di interesse.

Non si salva un luogo del genere con un QR code o qualche apparato tecnologico che veicola contenuti raffazzonati, quando non proprio fuorvianti o, peggio, cavati da studi scorrettamente non citati come è uso in questi nostri tempi privi di avvedutezza.

Non si salva un luogo del genere con il solito «progetto» pronto a intercettare fondi e risorse economiche, che l’esperienza mostra sovente impiegate male perché non riferite a una preliminare e rigorosa conoscenza dei problemi specifici. Non servono progetti e progettini, serve cura e manutenzione ordinaria, serve conoscenza.

Non servono le passerelle in costume finto antico né quelle in veste di ripulitori. Non serve ripulire qualche cespuglio (non si sa bene con quale criterio e sotto quale direzione tecnica) se poi si ignora il senso e il significato di quello che si intende ripulire. È del tutto controproducente.

Non servono panchine variopinte, buone solo a segnalare il proprio colore. No, come purtroppo la realtà si incarica di mostrare impietosamente, il patrimonio culturale non lo si ama se non lo si conosce. E non lo si conosce se non lo si ama.

Ben per questo che, senza perdersi in altri e inutili (e quindi dannosi) chiacchiericci da cicisbei un tanto al chilo, è doveroso intervenire immediatamente per ripristinare quantomeno la salubrità strutturale del sito.

Viceversa, sarà solo un vecchio muro in tufo sul quale in futuro apporre l’ennesima effige muta. Ma prodiga di parole sul fallimento di una generazione di abitatori troppo distratti e fuori tempo massimo.

E non crediate che ogni acqua vi lavi.