Montesarchio: 17enne in fin di vita per un pestaggio con una mazza da baseball, quando la violenza spegne i sogni

Ospitiamo una importante riflessione per quello che è successo tra sabato e domenica

Redazione
Montesarchio:  17enne in fin di vita per un pestaggio con una mazza da baseball, quando la violenza spegne i sogni
Foto di repertorio

Montesarchio: 17enne in fin di vita per un pestaggio con una mazza da baseball, quando la violenza spegne i sogni. Sulla vicenda del pestaggio di Montesarchio riceviamo e volentieri pubblichiamo questo interveno di don Crescenzo Rotondi docente e pedagogista.

Una sera come tante, davanti a una discoteca, si è trasformata in tragedia.
Gaetano, diciassettenne pieno di sogni e di vita, è stato picchiato e massacrato con spranghe e mazze da baseball da un gruppo di coetanei ed è ricoverato in ospedale in fin divita mentre l’amico 18enne di Foglianise è ricoverato in osservazione.
Una lite, forse nata da poco o nulla — una parola di troppo, uno sguardo — si è trasformata in una scena di brutale violenza. Un ragazzo che lotta per vivere. Un gruppo di giovani che, invece di scegliere il linguaggio del dialogo, ha scelto quello della violenza.
Ogni episodio come questo ci impone di fermarci e riflettere. Non soltanto sulla sicurezza delle nostre strade, ma soprattutto sull’educazione dei nostri ragazzi.
Perché adolescenti così giovani ricorrono alla violenza come mezzo di socializzazione, come strumento per “farsi rispettare” o per sentirsi parte di un gruppo? Perché la forza e la sopraffazione sembrano, agli occhi di molti, più efficaci della parola, della riflessione, dell’ascolto?
Viviamo in un tempo in cui i modelli di riferimento sono fragili e incerti. Il bisogno di sentirsi accettati si confonde spesso con l’idea che solo chi è temuto è rispettato. Molti giovani crescono dentro un vuoto educativo: mancano il dialogo, la presenza, gli spazi per esprimere le emozioni in modo sano.
E allora la rabbia diventa linguaggio, la violenza diventa identità. La scuola, la famiglia, lo sport, i gruppi giovanili: tutti devono collaborare per ricostruire il linguaggio della relazione.
I ragazzi vanno educati alla felicità autentica, quella che nasce dal rispetto, dalla condivisione, dalla collaborazione, non dal dominio o dall’esclusione. Bisogna insegnare a riconoscere e gestire la rabbia, a dare un nome alle emozioni, a trasformare la frustrazione in dialogo.
È urgente tornare a educare al “noi”, in un mondo che troppo spesso esalta solo l’“io”. Il gruppo deve tornare a essere un luogo di crescita, non un’arena di sfida. Oggi la violenza è diventata, per molti ragazzi, un modo di comunicare: serve per punire, per imporsi, per farsi notare, per sentirsi forti.
Ma dietro quel linguaggio c’è un grido di fragilità. Chi colpisce, spesso, è chi non ha imparato a esprimere con le parole ciò che prova, chi non sa dire la propria rabbia o la propria paura. Ed è qui che l’educazione deve intervenire: insegnare ai giovani che la parola costruisce, mentre la violenza distrugge.
Occorre una pedagogia della presenza, fatta di adulti che ascoltano, che pongono limiti, che credono nei ragazzi e li accompagnano. Serve una scuola che educhi alle emozioni, una famiglia che dialoghi davvero, una società che premi la gentilezza più della forza.
Solo così formeremo giovani capaci di vivere relazioni sane, di divertirsi senza distruggere, di sentirsi forti nella pace e non nella violenza. Ciò che è accaduto a Gaetano e al giovane di Foglianise non può restare soltanto una notizia di cronaca: deve diventare una lezione di civiltà.
Ogni giovane che colpisce un altro è, in fondo, un giovane che non è stato ascoltato abbastanza.E ogni adulto che tace o minimizza contribuisce, anche senza volerlo, a costruire un mondo in cui la violenza diventa normale.
L’educazione, oggi più che mai, deve restituire senso alle parole, valore alla vita e dignità al rispetto. Perché la vera forza non sta nel colpire, ma nel tendere la mano.