Padre Pio: una storia di dolore e amore
Nei suoi 81 anni di vita Padre Pio da Pietrelcina ha intessuto una storia di dolore e di amore. Il venerdì del 20 settembre 1918 le stimmate lo hanno reso copia conforme del Crocefisso. Nel 2008, dopo l’apertura agli studiosi della consultazione degli archivi della Congregazione della Dottrina della fede relativamente ai carteggi del periodo di Pio XI (1922-1939), è venuta fuori una sorpresa: Padre Pio era stato sottoposto nel 1921 ad una serie di deposizioni giurate da un inviato del Sant’Uffizio, il vescovo di Volterra Carlo Raffaello Rossi. Diamo immediatamente la parola a Padre Pio circa il colloquio avuto con il Crocefisso: «Dopo la celebrazione della Messa, trattenendomi a fare il dovuto ringraziamento nel Coro, tutto ad un tratto fui preso da un forte tremore, poi subentrò la calma e vidi Nostro Signore in atteggiamento di chi sta in Croce, ma non mi ha colpito che avesse la Croce, lamentandosi della mala corrispondenza degli uomini, specie di coloro consacrati a Lui e più da Lui favoriti. Di qui si manifestava che Lui soffriva e che desiderava di associare delle anime alla sua Passione. Mi invitava a compenetrarmi nei suoi dolori e a meditarli: nello stesso tempo occuparmi per la salute dei fratelli. In seguito a questo mi sentii pieno di compassione per i dolori del Signore e chiedevo a Lui cosa potevo fare. Udii questa voce: “Ti associo alla mia Passione”. E in seguito a questo, scomparsa la visione, sono entrato in me, mi sono dato ragione e ho visto questi segni qui, dai quali gocciolava il sangue. Prima nulla avevo». Nel centenario del prodigioso evento, il saio delle stimmate ha visitato i reparti di neurologia, oncologia, cardiologia e pronto soccorso dell’ospedale civile “Rummo” di Benevento che insieme all’ospedale “Sant’Alfonso” di Sant’Agata de’ Goti assumerà tra poco il nuovo nome di “San Pio”. Subito dopo la visita ai detenuti della casa circondariale, a diversi reparti dell’ospedale “Sacro Cuore” dei Fatebenefratelli, alla Parrocchia San Gennaro, al Monastero della Visitazione in San Giorgio del Sannio, Altavilla Irpina e Montecalvo Irpino. Imponente ed impeccabile l’organizzazione delle Forze di polizia coordinate dal Questore Giuseppe Bellassai e dal Capo di Gabinetto Giuseppe De Paola, che hanno scortato e custodito ovunque, giorno e notte, l’insigne Reliquia. Tantissima gente ha partecipato con fede agli intensi momenti di preghiera e di catechesi, avvicinandosi al sacramento della Riconciliazione e dell’Eucarestia, una significativa esperienza di evangelizzazione. La presenza dell’Arcivescovo Felice Accrocca, del Rettore del Santuario di San Giovanni Rotondo Padre Francesco Dileo, del Ministro Provinciale dei Cappuccini Padre Maurizio Placentino e di tanti sacerdoti ha reso ancora più efficace la peregrinazione del saio per cinque giorni in Terra sannita ed irpina. Straordinariamente incisiva la testimonianza dell’attore Pippo Franco intervistato dal giornalista della Rai Gigi Marzullo. Ora ci poniamo una domanda: perché la devozione alle reliquie? Si vede per credere o si crede per vedere? Non è una domanda alla Gigi Marzullo… In tempi di pragmatismo e razionalismo, relativismo e occultismo, che valore assume la preghiera e la devozione delle reliquie dei santi? E che impatto hanno questi appuntamenti per la vita di fede di un cristiano cattolico? I santi hanno reso visibile e concreto uno stile di vita pieno e felice sul modello della vita stessa di Gesù, il primogenito di molti fratelli. In altre parole, hanno vissuto il Vangelo. In molti modi si può fare memoria di loro, rendendo presente un messaggio universale di salvezza. Meditazioni e testi tratti dalle loro biografie sono comunemente accolti e fanno parte integrante della nostra fede e della nostra crescita spirituale. Percepiamo che è un modo di lasciarci interrogare, per poter attingere nuove risorse da spendere nel nostro cammino. Però questo rimane un cibo per la mente, un lavoro intellettuale. E i nostri sensi? In tantissimi momenti nei vangeli ci si riferisce al vedere come sinonimo di credere. «Videro… e credettero» non è solo una forma letteraria, ma un percorso di introduzione al mistero stesso. E nel corso della sua predicazione, Gesù ha spesso toccato e sanato bambini, lebbrosi, peccatori, storpi e l’incredulo Tommaso ha infilato le sue dita nelle piaghe del Risorto. Ognuno di noi è stato toccato in modo più o meno “fisico” prima di convertirsi ed aderire in modo maturo a Cristo, solitamente attraverso persone o esperienze concrete di accoglienza. La Provvidenza, poi, si è mostrata sotto diverse forme agli occhi che sapevano coglierla. Senza questi contatti tutto l’impianto rimane un’esperienza astratta priva di concretezza. Non una fede. E’ come incontrare una Legge anziché una Persona-Dio. La concretezza dell’andare a vedere e a toccare, poi, rimanda anche ad un altro importante aspetto. Questi segni tangibili aprono finestre per intuire la realtà misteriosa e ineffabile che sta “oltre” i nostri sensi. Il legame è inscindibile: la concretezza rimanda ad un di più, ma senza quest’ultimo la realtà rimane povera di senso e di significato. Non è possibile stabilire un prima e un dopo, ma una compresenza ed un processo che è approfondimento ed arricchimento. Nella nostra relazione con le persone a cui vogliamo bene viene spontaneo ricorrere a gesti di affetto e a piccole premure che comunicano il legame che ci unisce, che lo rende visibile. Nemmeno la morte interrompe questo legame, questa memoria, permettendo di conservare la sostanza dell’attaccamento pur cambiando i gesti che lo esprimono. Possiamo quindi scambiare un sorriso o accendere un lumino: lo strumento è diverso ma non il messaggio di amore che viene reso visibile. Credendo, poi, che la risurrezione del corpo sia parte integrante della fede, non può sfuggire come l’atto di devozione ad una reliquia lasci aperta la domanda sulla realtà stessa della vita dopo la morte. Se vediamo il corpo di un santo, se tocchiamo il suo sepolcro, noi compiamo dei gesti che ci rimandano al corpo glorioso della risurrezione: il suo precederci nella casa del Padre ci ricorda che quella è la nostra meta. Il confine con la superstizione è sottile, ma c’è: non vedo né cerco magia o miracolismo, ma vedo e cerco una relazione incarnata, una pienezza possibile per tutti, un corpo già “risorto”. La partecipazione alla preghiera e l’atto di devozione verso le reliquie, quindi, non sono il fine ultimo del mio credere ma si traducono in una trasparenza che lascia scorgere Cristo stesso, e come potrebbe essere la mia vita. Se, accostandomi a quella reliquia, traggo incoraggiamento e fiducia nel continuare la mia ricerca ed il mio cammino verso la santità, posso dire di aver compiuto un atto di fiducia nello Spirito che agisce oggi – come ieri – in tutto e in tutti. Ma per comprendere questo discorso occorre intelligenza, umiltà, rispetto assoluto per la pietà popolare, fonte di un’energia soprannaturale contagiosa. Non basta la ragione, non basta la volontà, è necessario soprattutto l’amore.
Monsignor Pasquale Maria Mainolfi