Due amanti, che si stringono reciprocamente l’un l’altra per sfuggire all’orrore del mondo, “con tutte le pene tra le loro braccia”, come reciterebbe una nota poesia di Dylan Thomas.
L’uno saldamente aggrappato all’altra, in quasi embrionale, simbiotica fusione: unico porto sicuro, in mezzo all’imperante caos del mondo circostante.
Liddove fuori, tra le strade, al di sopra della landa sconfinata e desolata della città, tuonano le bombe; e dentro, entro lo spazio angusto di una nuvola, che quasi come camera iperbarica a se stessa bastevole li isola e al contempo protegge, rimbomba il rumore della guerra.
Filtrato. Ovattato. Eppure, già tale da far accapponare la pelle, cadaverica, livida, terrea; tale da far tremare i vetri, fremere le superfici; tale da far accartocciare le pennellate. Nervose, frante.
E quell’abbraccio, quell’abbraccio si trasforma allora in una morsa: in un disperato, autentico atto d’attaccamento alla vita. Una posa tenera, quasi rassegnata, eppur protesa a confortarsi vicendevolmente; a vincere le reciproche, umane debolezze, nonostante uno sguardo in apparenza perso nel vuoto. Nel caos che lì fuori, tutt’intorno, imperversa.
Due amanti, allora, inesorabilmente destinati ad un inevitabile distacco; eppure, le loro anime che resteranno legate in quel disperato, straziante abbraccio per sempre. Perché l’ultimo, disperato suggello d’amore s’è ormai consumato, prima della dipartita definitiva. Prima della tragica fine.
Ed ecco, allora, la sofferenza interiore dell’artista trasudare, prendere vita dalle sue mani e, come vortice distruttivo, sgretolare, smaterializzare quei corpi: corpi che perdono consistenza, si corrodono, partecipano della cosmica sofferenza che li circonda; corpi quasi stigmatizzati delle ferite d’ogni essere umano sulla terra; corpi che s’accartocciano nel tentativo di affrontare un simile dolore. Quello della perdita, e d’una perdita imminente.
Né immune resta quell’impalpabile giaciglio: alcova d’amore e dolore insieme, che al tempo stesso li avvolge, accoglie e maledice. Ora disperato rifugio; ora mare tormentato, in entrambi i casi preda d’una pennellata effimera. Allucinata. E quel tepore, rosso tepore che dai due corpi in precedenza irradiava, repentinamente lascia ora il passo ad un sordo azzurro spettrale. Di ghiaccio.
Di ghiaccio, come la fine. Come la sorte che il dipinto, per quasi ovvia predestinazione; per quasi medesima incarnazione del triste destino che ai suoi stessi protagonisti arride, finisce per scontare, nondimeno, su di sé.
Quel gioco di affronti, vendette, incomprensioni; recriminazioni, reciproche ripicche di due che, per essersi forse troppo amati, non seppero alfine mai più riconoscersi. Mai più ritrovarsi.
E l’amaro, tristemente amaro destino dei due: lacerato, distrutto, come il cuore di Oskar; abbandonato, svenduto, come la vita di lei.
E la colpa, non meno triste, non meno bizzarra, della prova miseramente fallita: non aver saputo restituire al pittore la sposa mancata, e aver finito, fors’anzi, per sostituirla. Per essersi trasformato, alfine, non più nel simbolo dell’unione alchemica e spirituale che i due s’erano illusi di aver realizzato amandosi; bensì, nel suo equivalente materiale.
E pur tuttavia, anch’esso mero ectoplasma; tutto evanescente, tutto da venerare, tutto da ossequiare, in ricordo di qualcuno che non v’era già più da tempo. O che forse, mai veramente c’era stato.
Ed ecco allora la decisione definitiva, fatale. Allorquando l’Austria fa il suo ingresso in guerra, consapevole dell’ormai irreversibile addio della sua tanto amata Alma, Oskar si arruola volontario nel XVesimo reggimento dei dragoni, col conseguente obbligo d’allora per gli allievi ufficiali di possedere un cavallo.
Ebbene, sia pur con lo strazio nel cuore, Oskar vendette “La sposa del vento”, per andarsene poi al fronte, tra bombe e polveri da sparo, a farsi colpire tristemente alle tempie, in sella al suo cavallo nuovo.
Talvolta, anche l’amore più assoluto e totalizzante, quello che sfida regole e convenzioni; quello che scardina ogni principio precostituito ed ogni ragione, scandalizzando i benpensanti; quello che si colora d’odio e passione; quello che fa d’un giovane selvaggio, un uomo; d’una femme fatale, una donna innamorata; e di un pittore espressionista da tutti esecrato, un maestro indiscusso del Novecento, genio di fama mondiale; ebbene, proprio un simile, siffatto amore, per logiche sadicamente sottese e trame idrauliche incomprensibili finanche alla stessa ragione umana, finisce sovente per essere sì tanto calpestato, svilito, offeso, da scadere irrimediabilmente al suo punto più infimo. E valere, a stento, il prezzo di un cavallo.
Ed allora, forse, proprio tra le macerie d’un siffatto amore distrutto, altro non resta che il peso nero e segreto del ricordo. D’un ricordo forse doloroso, ma che pur tuttavia, fors’anche per il solo frangente di un istante, è stato l’unico appiglio idealmente possibile; l’unica ancora di salvezza per continuare a vivere e non affondare.
Liddove intorno, tutt’intorno, è solo un oceanico vortice d’immenso dolore. Una memoria travolgente, pur nell’autocostrizione a rivivere un momento d’estrema difficoltà in cui stare a galla era difficile; eppure, pur sempre, l’unica opzione, l’unica salvezza possibile.
E allora, come dimenticare quando l’altro sorrideva, sì; eppure, lontano, distante. Sicché è forse questa la più grave onta all’orgoglio, e la più grande ferita. Desiderare prossimità, vicinanza; riceverne, al contrario, lontananza, distanza. Soltanto echi, riverberi lontani.
Che forse allora, fors’anche un dipinto, un simulacro, possano costituire l’antidoto per un ritorno? Innocente, e purtroppo vacua, amara illusione. Perché quando, infine, l’unica certezza che resta tangibile è l’assenza, il vuoto, s’indulge nel ripercorrere tutto, di un amore tragicamente concluso.
E nondimeno, nell’illusoria speranza di potervene sostituire uno futuro; di non far sì che l’altro possa vederci andare a fondo; eccolo allora lì, a portata di mano, l’oblio: come anestetico e come cura.
Quella negazione nel “lutto” che diviene il solo palliativo; il solo modo per evitare di affondare nel più grande scoramento, nella più bruciante nostalgia. Di qualcosa, di qualcuno; di quella parte finanche di sé, che pure si è persa.
Persa, o forse rimasta imbrigliata, ingabbiata nel cuore di qualcun altro sino a non esserci stata mai più resa indietro. Crudelmente negata, per mancato diritto di recesso.
E allora, sovente, la triste chiusa finale è un tirare le somme di chi, sia pur un tempo imperturbabilmente vicino al cuore, il cuore se l’è infine portato via, condannandoci senz’ appello al vuoto dell’assenza; di chi non v’è stato nel momento del bisogno.
Languido, profondo, amaro bisogno. Parte della natura intrinseca, viscerale, di ciascuno di noi; e che tutti, prima o poi, nostro malgrado, siamo stati o saremo forse chiamati a sperimentare. Pur negandolo. Pur non volendolo.
Ed ecco che così, talvolta, finanche un dipinto, un simulacro; finanche un’immagine, una sagoma, per quanto sgualcita, stropicciata, rattrappita; ridotta in pezzi, malmenata; distrutta o svenduta, si rivela l’ultimo, estremo, disperato baluardo.
L’ultimo, estremo, disperato grido per non far sì che quel ricordo – anche quel ricordo – per quanto malsano e sofferto, possa definitivamente scivolare via. Volare via. Al vento.
Al vento, esattamente come quella “Sposa” dipinta di blu il cui “vento”, a distanza di secoli, continua tuttora, ancor oggi imperterrito, a riecheggiare; a restituire ancor oggi vita, dignità, identità e significato al suo dipinto.
E a soffiare d’un amore, tutto sommato, rimasto eterno. Immortale. Un amore che, nonostante tutto, a dispetto d’ogni tempo, luogo, guerra o rivoluzione, mai veramente si cancella. Mai veramente muore. E mai, veramente, vola via.

Serena Fierro