Tormento ed Estasi: l’attimo infinito che trionfa sulla disperazione

Una lotta impari che l'umanità conduce da sempre contro il male

Redazione
Tormento ed Estasi: l’attimo infinito che trionfa sulla disperazione

Tormento ed Estasi: l’attimo infinito che trionfa sulla disperazione. L’interessante rubrica della nostra Serena Fierro, questa setimana, ci illustra la scultura di Gaetano Cellini  ” L’Umanità contro il Male 2.

“Così ti sterperò coi denti e l’ugne/ Dolore eterno che nel cor mi pugne”

(“L’ Umanità Contro Il Male” – Gaetano Cellini, 1908)
Esiste un dolore che non soggiace in se stesso, né muore nel marmo. Esso scalpita. Preme. Si contorce. S’agita per liberarsi.
E v’è un lirismo, una commozione, in quel dolore che non si rassegna, né cede il passo alla resa. Alla cupa, nera disperazione.
V’è un lirismo, una commozione, nel mormorio di una speranza dura a morire e che, malgrado tutto, continua ad albergare tra le brecce di silenzio che s’aprono finanche tra gli uomini deformati dal male, dalla sofferenza. Dalla lotta. Dalla noia.
Da una talvolta cieca obbedienza alle leggi del caso. E della sorte.
Non vi sarà forse mai uomo né artista, opera d’arte né marmo alcuno a gridarcelo esplicitamente. O a sussurrarcelo a fil di fiato. Eppure, forse, ciò di cui esser certi – e fieri – è che nessuno di essi si sia mai rassegnato a restare comune pietra a se stessa abbandonata, in un campo desolato, incisa da una crudele mano ignota dall’alto.
Né da leggi altrettanto malvagie, ignote ed incomprensibili. Per soccombere, alfine, all’ombra di se stesso.
Ed è forse per questo che, ad oggi, “L’ Umanità contro il Male”, firmata dallo scultore ravennate Gaetano Cellini, dapprima in gesso nel 1906, dipoi in virtuosistico marmo nel 1908, costituisce tuttora uno dei pezzi più commoventi, nonché amati ed apprezzati, conservati alla Galleria d’Arte Moderna di Roma.
Un uomo genuflesso, solo, ripiegato su se stesso. Solo, ad affrontare un atroce destino, accogliendo nondimeno su di sé quello di un’umanità intera. Soffrendo, combattendo, patendo. Cadendo. Sfinito, e pur tuttavia, non ancora sconfitto.
È la rappresentazione, tutta emblematica, della titanica lotta dell’Uomo contro il Male, nel momento in cui ogni singolo dettaglio lascia presagire che, a dover irrimediabilmente soccombere all’epico eccidio, sarà l’Umanità stessa.
Eppure, ciononostante, essa tiene, non arretra, non demorde, decisa a non arrendersi, né a cedere di un passo; non prima di aver esalato l’ultima, residua energia vitale, sia pur a fronte di una disperata, impari, infinita lotta. Ed in apparenza, soltanto in apparenza, priva di qualsivoglia speranza.
Un uomo che, con le sue ultime, commoventi, disperate forze, strenuamente s’aggrappa al suolo della terra, nel supremo tentativo di estirpare, sviscerare, strappare via quel velo del Male che riveste, quale opprimente e funereo sudario, la superficie stessa della crosta terrestre.
E altresì, con la stessa struggente, intensa drammaticità di chi, sia pur allo stremo delle forze e con l’ultima fibra di cuore superstite, quasi ormai prossimo alla fine, non desiste. E pur tuttavia, neppure soccombe, neppure si arrende. Neppure muore.
Non finché non sia stata detta l’ultima parola. Non finché non sia stato esalato l’ultimo respiro. Non finché non sia cessato l’ultimo, flebile battito. Si accascerà forse presto al suolo, quest’uomo, schiacciato dal peso di un mastodontico sforzo. Oppure forse, forse no.
È la lotta ancestrale, atavica, antica quanto l’uomo, di Davide contro Golia, del Bene contro il Male. Un Golia invisibile, di un gigantismo quasi reso per chiastica contrapposizione, fisica e cognitiva, tramite quell’impalpabile velo che si dipana con le sue radici infestanti in maniera sotterranea, subdolamente idraulica – e a maggior ragione, forse proprio per questo, ancor più inquinante e pericolosa – dalle visceri stesse della terra.
Nondimeno, quasi ad inghiottire e a fagocitare, quali morbose sabbie mobili, l’umanità intera; oppure, di contro, a farla riemergere, quasi in ossimorico amplesso, dalle stesse, pari in loro natura, restituendoci così all’antico, eterno, amletico dubbio circa la sostanza di cui noi medesimi siamo fatti.
Altresì impossibile non riconoscere in siffatta, virtuosistica resa estetica e metaforica insieme, finanche un riverbero del celebre “Cristo Velato” del Sanmartino (1753, Cappella Sansevero di Napoli), di una suggestione che investe l’intero significato dell’opera stessa.
Non soltanto un novello Atlante sopraggiunto ad assumere su di sé il peso di una cosmica battaglia; bensì, al tempo stesso, quasi un novello Redentore, impegnato in un laicissimo, prosaico atto di universale redenzione. Liberazione.
E lo scalpello, lo scalpello stesso, le mani dell’artista che incidono e plasmano il marmo assurgono, in siffatto processo creativo, all’essenza medesima di quel male necessario che ogni essere umano, inevitabilmente suo malgrado, s’autoinfligge, pur di scavarsi per liberarsi. Pur di raggiungere l’anima, la luce. Al fondo di sé.
Ed ecco allora, l’umanità contorcersi, dibattersi per liberarsi, estenuata dallo sforzo incessante.
Ecco allora, un corpo finemente cesellato; perfettamente modellato in ogni minimo, infinitesimale dettaglio della raffinata griglia anatomica e tissutale. Superbamente forgiato, plasmato, scontro dopo scontro. Colpo dopo colpo. Tentativo dopo tentativo. Lotta dopo lotta.
La schiena inarcata, prostrata, ricurva, quasi soverchiata da un peso invisibile, eppure schiacciante.
Mani nodose, rattrappite, vascolarizzate. Tendini, capillari, vene in esacerbata tensione; in dolorosa, realistica, perentoria evidenza, fin quasi al punto di spezzarsi.
Trapezi rigonfi, inserzioni muscolari, deltoidi e fasci estensori che sembrano spaccarsi, or ora, in due dallo sforzo.
E il capo, il capo ripiegato verso il basso, affossato tra le estremità superiori con ormai quasi mortale indolenza; il volto parimenti negato, celato allo vista. E potremmo intuire, di quel volto sconosciuto, tutta la smorfia di sfigurante, intenso dolore.
Di sorda disperazione. O forse altresì, per contro, d’infinita, sublime, composta sofferenza. Come forse, pure sarebbero le nostre. Nostre, come tradisce la mancata scelta da parte dell’artista, allora, affinché ciascuno possa meglio intuirsi, meglio riconoscersi, meglio identificarsi in quell’universale, comune sentire; in quella guerra esecrata, archetipo e parabola esistenziale insieme per ciascuno di noi.
Ed è allora per questo un uomo, quello di Cellini, che s’appresta a non morire. Forse dolorante, forse schiacciato, forse spezzato. Umiliato, sì; lacerato, dimidiato, nel sempiterno conflitto fra dolore e stanchezza. Resilienza e cedimento. Sopportazione e sopraffazione. Bene e malvagità.
E pur tuttavia, no: non ancora finito. Non ancora vinto. Viceversa, ancora pulsante di quel vivido spirito di sopravvivenza, di ribellione, che spinge a non morire, sia pur al prezzo di un’incessante tortura; di un autentico scontro all’ultimo sangue, a tu per tu, con il demone della sofferenza. E della morte.
Ed è allora altresì per questo, quella di Cellini, la rappresentazione non di una sconfitta, non di una bruciante disfatta. Bensì, dell’umana dignità. Di una perdita soltanto apparente, da un lato; di una stoica, eroica compostezza, dall’altro. Sia pur entrambe consumate nel pieno del silenzio, della solitudine, della macerazione. Dell’agonia.
Di un’agonia che, pur tuttavia, non grida di dolore, ma profuma, per l’appunto, di dignità. Di quell’integrità nella sofferenza che fa di quest’uomo non soltanto “un” uomo; e di un’opera d’arte non soltanto un capolavoro. Bensì, un simbolo universale. Un paradigma totalizzante: dell’individuo; del singolo; dell’umanità tutta. Così come di ognuno di noi.
E allora, siffatto simbolo, siffatto paradigma; siffatto uomo, ed anzi, siffatto eroe, tutto antico e tutto contemporaneo al tempo stesso, altro non è che un laico invito a non demordere. A non soccombere al peso dell’esistenza. Al male inevitabilmente ivi presente.
Un monito immortale, scalfito, inciso nella dura pietra, a suon di colpi incandescenti. Per rammentarci che il senso di precarietà, d’incertezza, di malvagità, non saranno forse eliminabili, nostro malgrado; ma quantomeno, se non altro, sempre, pur sempre addomesticabili.
Per non lasciarci morire, esangui. Per convincerci a non desistere dinanzi alla morsa del dolore, finanche al prezzo di un sovrumano, estremo sacrificio; di una guerra a denti stretti e a gomiti serrati, che forse richiederà tutto, pur senza concessione alcuna in cambio.
Per non lasciarci gratuitamente distruggere, per quanto esanimi, stremati, finanche ormai al fondo di noi stessi. Lì, dove la capacità di non cedere per il tempo infinitesimale di un altro, solo un altro, ultimo respiro; di un solo ultimo, disperato, altro attimo ancora, può davvero fare la differenza.
Tutta la differenza esistente, abissale, tra chi resiste e chi soccombe. Tra chi vive e chi invece, alla fine, muore.
Un attimo che, se premiato, ci restituirà in cambio la più preziosa, impagabile delle promesse. Delle rivincite, delle vittorie. Quella del Bene sul Male. Quella della Luce sul Buio. Quella della Speranza contro l’Oscurità. E con essa, quella definitiva, trionfale, autentica, viscerale, e pienamente Umana, della Vita.

Serena Fierro