Un uomo sradicato, disancorato, disadattato. O peggio: privo di radici. Colui che non ha più, letteralmente, un “ubi consistam”: un fondamento, una base morale. Né, pur tuttavia, un “quo vadis?”: un “dove andare”.
Dentro di sé, il vuoto di senso; fuori di sé, il deserto. Sotto di sé, un abisso insondabile; dietro di sé, un amaro rimpianto. O forse, il vago ricordo di un nostalgico ieri. E in ciascun caso, oramai, un esilio forzato, al di fuori del tempo e dello spazio.
E come tale, null’altro resta a quest’uomo che incamminarsi, ordunque, puntualmente infrangendosi contro i miraggi di quei deserti; e ben sapendo che non vi sarà più stella polare, stavolta, ad indicare la via. Né astro celeste ad illuminare la meta.
Un continuo avviarsi, peregrinare, andare. Scavare, forse cercare. Preda d’un assurdo, incessante cammino. Eterno viandante s’un mare di nebbia.
Ed è forse questa, allora, l’immagine più emblematica, iconica e pregnante, direttamente figlia della condizione umana, che l’intera storia dell’arte nonché del Romanticismo ci abbiano consegnato: l’omonimo dipinto che Caspar David Friedrich vergò nel lontano 1818. Quel “Viandante sul mare di nebbia”, tuttora ovunque osannato. Amato.
Un uomo, solo. Soltanto se stesso e la cima di un monte, al di sotto delle quali, sconfinate immensità.
Capelli scompigliati al vento. Lo sguardo a spaziare su rilievi lontani. Sul cielo, sulla terra; sulla nebbia in valli addensate. Valli, di un’immensità quasi irreale, abissale, tali da trasformare l’uomo e la natura tutta in un doloroso emblema della “Sehnsucht”: di quel dolente struggimento; di quel doloroso bramare all’infinito, tanto caratteristici della sensibilità romantica.
Eppure, l’evento, l’attimo, ora fermato, del flusso cosmico, mai si esaurisce né si consuma in se stesso; nel vuoto, nella solitudine della natura. Di fronte ad esso, e con esso in consonanza, v’è al contrario ben altra solitudine: quella dell’uomo che contempla; e nel contemplare, sprofonda e si strugge.
Una figura immobile, perduta, di spalle a chi guarda. Non mero pretesto, come nella pittura precedente, per virtuosistici diorami paesaggistici; né occasionale protagonista di una scena di genere.
Bensì, nella sua indeterminazione, vaghezza, indefinitezza; nell’impossibilità ad esser conosciuto e riconosciuto, un uomo che acquista tutto il valore della sua presenza.
Un uomo, con l’incertezza di quel suo volto celato, dall’altro lato voltato, da cui trasuda tutta la forza, l’incanto di un personaggio misterioso e simbolo universale insieme.
È l’uomo finito, impotente di fronte alla vastità dell’ignoto. Solitario cercatore d’assoluto e di sensi; valicatore d’oceani e di deserti; nomade per natura, o forse, per amaro destino.
“Homo viator”, “promeneur solitaire”, navigante senz’approdo: è allora Friedrich; è noi tutti e, al contempo, ciascuno di noi, solo. Solo con se stesso, solo con un amico; solo con colui o colei che abbiamo amato; solo con Dio o con il mondo. Oppure, fors’anche, tutti questi insieme.
Un uomo di cui Friedrich si serve allora per entrare nel dipinto, non meno che di se stesso, di noi stessi ivi trasportati; quasi a volerci indicare che il vero evento, il vero viaggio, avviene lì, proprio lì: nella profondità della nostra coscienza. Nel fondo della nostra anima.
Lì, dov’è quell’ansia d’infinito, di tensione verso la totalità; quell’aspirazione ad una sempre delusa, irraggiungibile, comunione con la natura e col tutto. E, attraverso essa, col divino.
Lì, dov’è quella malinconia; quella dolorosa consapevolezza di restare confinati entro i limiti stessi dell’umano possibile. Quella sensazione d’inermità, d’impotenza, al vedersi piccoli e finiti, dinanzi al panorama sconfinato, imponderabile, della Vita.
Lì, nell’angoscia e nell’instabilità dell’esistenza; nell’incessante tentativo di ricomposizione dei contrari; nell’intimo tormento. Nel terror panico, del vuoto. E della paura. Perché siamo tutti terribilmente simili, e terribilmente scontati, nelle nostre chiusure imposte dalle paure.
Ma altresì lì, in quel desiderio d’armonia dell’uomo con se stesso e con le cose; nella vitalità estrema, ininterrotta del sentimento. E in quella solitudine, intima solitudine, quale angusto, incolmabile stato esistenziale. Nella coscienza, sempiterna, della nostra finitudine.
Ed ecco allora Friedrich, in tutta la sua, nostra modernità. Ed ecco, altresì, la sua capacità di oltrepassare il simbolismo, il fascino retorico e mistico dei profili montuosi; del Rosenberg della Svizzera tedesca; delle rovine, delle tombe; delle notti di luna piena; di quella solitudine nei boschi che nondimeno, sovente, popolano i suoi dipinti.
Per trapassare, per transitare oltre, dalla grandiosità dell’evento naturale alla drammaticità della condizione umana. Alla poesia lucida, seppur inquieta, dei suoi, nostri sogni, sì chiaramente illuminati.
Ed ecco, allora, a dieci anni di distanza dall’ “Altare di Tetschen”, un’altra vetta protagonista di un evento di portata metafisica. Universale.
Ancora un’altra vetta; un altro viaggio; un altro uomo, un altro capolavoro, di fronte ai quali non può non sorgere spontanea una consonanza con quei versi, altrettanto eterni ed universali, dell’Infinito di Giacomo Leopardi:
“Mirando, interminati spazi e sovrumani silenzi, e profondissima quiete, io nel pensier mi fingo.
Così tra questa immensità s’annega il pensier mio.
E il naufragar m’è dolce in questo mare.”
Serena Fierro