Ed ecco perché siffatto dipinto, e siffatto mito, ci parla allora non di morte; bensì, di trasformazione: nasce il fiore, nasce un simbolo. Nasce un archetipo, nasce un mito. Perché fiore è qualcosa che, ad ogni primavera, sempre si rinnova.
Qualcosa che ci parla di circolarità; di tempo. Di bellezza; di stupore. Di narcosi. Di tutto questo.
Ed ecco ancora perché siffatto dipinto, e siffatto mito, non s’esaurisce con la morte in se stessa; ma con una morte che si trasfigura in qualcosa d’altro. Con la morte di quella parte di sé troppo centrata su se stessa e s’un ripiegamento tutto esteriore. E alla quale non può non subentrare, alfine, un occhio finalmente aperto ad una dimensione totalmente nuova, poetica. Sacrale, simbolica dell’esistenza.
Perché nel fiore qualcosa viene sempre, sempre ritrovato; tratto fuor d’acqua, trasfigurato. Riconosciuto. Diviene immagine, bellezza, emozione. Libertà, anelito, poesia. Anima.
Ed ecco che così il primo, solitario, segreto monologo che riprende forma e vita nell’immagine di codesto Narciso, novello fiore e novello uomo, altro non è che la prima, originaria, essenziale ricostruzione d’un mondo che finalmente s’affaccia e si riaffaccia su se stesso con occhi nuovi. Con bellezza nuova.
Esattamente la medesima per la quale, in uno dei passi più intensi e struggenti delle sue Confessioni (X, 26-27), lo stesso Sant’Agostino scrisse:
“Ti ho amato bellezza, tanto antica e tanto nuova. Tardi ti amai. Sì, perché tu eri dentro di me e io fuori. Lì ti cercavo. Alla fine, ho scoperto che eri dentro, e non fuori, di me.”
Dall’amore per se stessi, passando per la morte, nasce il vero amore. E rinasce forse, altresì, quello autentico, spontaneo, viscerale per la vita. Proprio liddove, proprio allorquando non ci s’aspettava, forse mai più, di trovarlo.

Serena Fierro