Tormento ed Estasi: quel soffio di libertà
Torna una rubrica molto amata

Tormento ed Estasi: quel soffio di libertà. Siamo felici di annunciare il ritorno di questa rubrica d’arte tenuta da Serene Fierro. Tormento ed Estasi è uno spazio sull’arte a 360 gradi. Un momento per riflettere sulla vita e scavare nelle profondità della nostra anima. Serena ci guida con sapienza e con uno stile da grande scrittrice. La redazione ed il direttore de Il Caudino sono veramente onorati di poter contare su questa penna che riesce ad emozionare e a farci sognare.
“Volevo creare una scultura con la quale chiunque, indipendentemente dal proprio contesto, potesse guardare, e percepire immediatamente l’idea di qualcuno che lotta per liberarsi.
Questa scultura rappresenta la lotta per la conquista della libertà attraverso il processo creativo. Nonostante abbia provato questa sensazione a causa di una particolare situazione personale, ero consapevole che si trattasse di un desiderio universale.
Tutti hanno bisogno di uscire da qualche situazione. Che si tratti di una lotta interiore o di una circostanza contraddittoria. E di essere, finalmente, liberi”. Zenos Frudakis – “Freedom” (“Libertà”), Philadelphia (2000).
Dai famosi “Prigioni” di Michelangelo e, in particolare, dal suo più celebre “Schiavo Ribelle”, partendo dal già lontano 1513, nella più esuberante Roma rinascimentale; alla contemporanea “Libertà” di Zenos Frudakis (2000), nell’attuale Pennsylvania, a Philadelphia.
Dalla neoclassica “Porta dell’Inferno” di Rodin (1880), nel Sud della Francia; ai vari “Icaro” da sempre cantati, tanto in pittura quanto in scultura e in letteratura.
Che sia in tenue argilla o virtuosistico marmo; in friabile gesso come in bronzo; ad inchiostro oppure a matita; in prosa come in poesia. Antica come l’uomo, e comune ad ogni tempo e luogo, è la sua tensione emotiva verso l’alto: verso il raggiungimento della tanto sofferta, agognata libertà.
Verso la liberazione: verso il superamento del limite. Dei propri limiti.
Aveva dunque probabilmente ragione Nabokov quando, ormai in esilio e alle prese con la pubblicazione dei propri romanzi negli Stati Uniti, scriveva che non esiste un termine inglese in grado di restituire compiutamente la ricchezza semantica del termine russo “tocka”, che egli descrive, al suo grado più profondo, come “Una sensazione di grande angoscia spirituale”; e al suo grado più lieve, di contro, come “Un dolore sordo dell’anima.
Un desiderio senza oggetto. Uno struggimento che duole. Una vaga irrequietezza. Uno spasimo mentale. Una brama”. E, se può valere lo stesso per il greco antico, che pur nella sua ricchezza linguistica associa l’anelito impetuoso privo di oggetto (la heideggeriana “volontà di volontà”) al solo dio Pòthos degli Eroti, non può altrettanto dirsi per il tedesco già nella sua forma alto-antica: “tocka” è, difatti, la sintesi della “Sehnsucht”, la “malattia del doloroso bramare all’infinito il desiderio stesso”, da un lato; e, dall’altro, della “Weltschmerz”, la “cosmica stanchezza del mondo”.
In virtù di questo, proprio l’attrazione per la natura implacabile del desiderio; per il tormento dell’uomo consapevole; per lo “Streben” (“sforzo”, “struggimento”), tanto caro alla Filosofia
Romantica tedesca; per l’ “Innerlichkeit” (l’Interiorità goethiana), e per il “Sottosuolo” dostoevskijano, è il punto in cui le massime espressioni delle varie culture letterarie ed artistiche europee – siano esse greca, tedesca, russa, italiana, inglese – si sono incontrate e si sono riconosciute, alfine, quali gemelle di spirito.
Quasi a ribadire che, da sempre, l’uomo è anelito infinito verso l’alto. Sforzo proteso verso la libertà, lotta inesauribile contro il limite. Nonché contro la natura medesima e contro, finanche, se stesso.
E che alcuni di noi, in particolare, sono come una corda sospesa: costantemente tesa tra un’ancora che li trattiene in giù, in basso; ed un altro sogno che, invece, li tira in alto. Ma quanto manca, quanto tempo manca al suo spezzarsi?
Eterni “Icaro”, novelli “Acrobati” di Szymborska, in equilibrio sospesi, sul filo del nulla, in perenne ricerca e in perenne tensione.
Soli, o anche meno che soli. Meno, perché imperfetti; meno, perché mancanti “di”. Monchi di ali: ali che ci mancano molto. Di una nostalgia bruciante, che ci costringe a voli imbarazzati su un’attenzione senza corde e senza piume, ormai soltanto nuda.
Eppure, dallo stato d’argilla grezza, iniziale, embrionale, qualcosa nasce: nasce sempre. Qualcosa nasce ed inizia ad evolversi; a prendere, gradatamente, forma. Subisce, nondimeno, una graduale metamorfosi, sia pure a prezzo di una faticosa anabasi dentro se stesso: esattamente come accade, talvolta, ad alcuni di noi nella vita.
Da sinistra verso destra, in una composizione che si sviluppa in sequenza orizzontale. Quattro figure distinte, eppure una sola.

Inizialmente prigioniera, la prima, in tutto simile ad una mummia: essere amorfo ancora tenacemente inghiottito da un fondo tombale, eppure altrettanto informe, quale fangoso ammasso di melmose, trascinanti sabbie mobili verso il basso.
Un secondo pannello, una seconda figura: un moderno “Schiavo ribelle”, d’ispirazione tutta michelangiolesca, con tutto il suo carico di straziante tormento, fisico ed emotivo. Lentamente inizia a farsi strada tra la nuda terra; ad agitarsi, a divincolarsi, a lottare. Per liberare, per liberarsi.

Terzo, penultimo pannello.Un primo, palese distacco, finalmente, netto, evidente, da quella parete; da quello spazio assiderante che, per un tempo simile all’eternità, lo ha tenuto prigioniero, ingabbiato. Trincerato in se stesso.
Timidamente ora avanza, fors’ancora miope ed ipersensibile alla luce; e pur tuttavia, adagio, tastando, cercando, saggiando, annusando i primi barlumi di quello che, vagamente, inizia a far presentire qualcosa di simile alla libertà.

Ultima, impattante, commovente inquadratura.
Non più una massa informe strettamente ancorata laddove, poc’anzi, era la sua alcova di dolore; e adesso, invece, solo un’orma, solo una sagoma vuota.
Bensì, finalmente, una figura umana, in carne ed ossa, pienamente riconoscibile nelle sue vere sembianze. Ed ormai, libera. Completamente libera. Vittoriosa.

Ed ecco, allora: braccia protese al cielo, aperte verso l’alto. Non più ad invocare una possibilità di salvezza da una presunta dannazione. Non più ad elemosinare quel tenue raggio di sole, goccia di pioggia o refolo d’aria pura che fosse, come dapprima. Ma ad annunciare, finalmente, l’avvenuta rinascita, definitivamente distaccata dall’asfissiante, lapidale spazio ormai alle sue spalle.
Ed ecco che, allora, no: non più fuga disperata dal dolore claustrofobico della mortalità stessa; né più struggente anelito verso l’alto. Solo definitiva, pura, piena catarsi.
Catarsi dalla prigionia del tormento, da gioghi che non potranno mai più imbrigliarla.
Catarsi dal senso costante di fallimento in una lotta campale, a tu per tu entro lo spazio angusto di limiti e confini, al prezzo di un’ormai quasi macerante follia; o forse, peggio, di una morte già annunciata, quasi per asfittica assenza d’aria.
Catarsi, dall’opprimente sindrome di un arto fantasma: dalla sensazione costante, bruciante, di quell’ala sempre mozzata dietro la schiena. O forse, realmente, mai nata. Eppure, non tale da non far presentire in sé, insita, la potenzialità del volo e al tempo stesso, suo malgrado, l’assenza materiale di una struttura alare atta a calibrarne partenza, potenza e direzione.
Catarsi: dalla condanna di una prospettiva sempre e solo in pervicace proiezione dal basso; dal punto di vista più infimo, sito in fondo alle ultime, più remote viscere della terra. Quelle fatte di buio. Di fango. Di polvere.
E allora, no, non più: non più antico, fragile “Icaro” dalle ali di cera riarse dal sole; e neanche più novello “Acrobata”, in precario equilibrio su un orlo di filo spinato. Adesso, semmai, novello “Adamo”, e novello Uomo.
Novello uomo, nato proprio da quella stessa argilla; da quello stesso fango; da quello stesso buio, da quella stessa polvere di cui sono intrise le radici della Terra. Più un’Idea. L’idea, da parte di un demiurgo creatore, di plasmarlo ed incarnarlo in un soffio vitale.
Un soffio che restituisce alla vita. Un soffio che sappia, giustappunto, di liberazione. Quel soffio, finalmente, di Libertà
.Serena Fierro