Tormento ed Estasi: siamo marmo e siamo pietra ma la nostra anima mai si piega
La seguita rubrica settimanale di Serene Fierro affronta lo sfrregio alla Pietà di Michelangelo

Tormento ed Estasi: siamo marmo e siamo pietra ma la nostra anima mai si piega. Il restauro è di per sé forse l’operazione di ripristino più complessa esistente, tanto in Arte quanto in natura.
Intervenire sulla “facies” di un volto, di un corpo, di un’opera; suturarne, cucirne, celarne alla vista le profonde ferite significa forse, almeno in apparenza, cancellarne l’intero vissuto. La memoria. Deturparla, annullarla. Obliarla.
Eppure, quando a doversi recuperare è il senso immortale, irrinunciabile della Bellezza, è certamente possibile, fors’anche doveroso, travalicarne le dualità. Oltrepassarne la temporalità.
Giacché tutto è vissuto. Tutto è eternità. Tutto è storia.
21 Maggio 1972. Una data indelebile e un solo shock. Una sola notizia ad inaugurare ogni telegiornale della sera e a destabilizzare il mondo intero.
Quindici colpi di martello; quindici volte assassinato; quindici volte deturpato uno dei volti più sacri ed osannati dell’intera storia dell’Arte. Era la Vergine della celebre “Pietà” Vaticana, firmata da Michelangelo nel 1499, a subire la più crudele onta mai inflitta da parte di una mano tanto maledetta quanto efferata.
Tal Laszlo Toth, geologo di nazionalità australiana, travalicando la balaustra di protezione in San Pietro, decise, in quello scellerato giorno di maggio, di compiere uno dei più vergognosi, assurdi attentati contro la Bellezza di cui mano umana si sia mai resa colpevole.
Un crimine perpetrato contro l’essenza stessa della Perfezione; uno scempio inflitto al più sublime dei marmi. Al più immortale dei corpi. Al più ieratico dei volti.
Immagini conturbanti, quelle del 1972, che documentano tuttora con cruda empietà tutti i danni inferti all’opera scultorea forse più famosa, apprezzata e amata di sempre.
L’etereo volto sfigurato. Il naso mozzato. Le palpebre gravemente occluse. L’avambraccio sinistro dolorosamente amputato. La fine mano mutilata. La Perfezione dissacrata, riportata al suo stato di originario, embrionale, polveroso frammento. Da sublime, traslucido marmo a mera scheggia di pietra.

Eppure, v’era qui una distonia non soltanto estetica, bensì tutta cognitiva, etica, spirituale e morale insieme, nel lasciare un siffatto marmo sì gravemente sfregiato in ossequio al principio d’evoluzione delle epoche storiche. Un colpo inferto al cuore e al suo mediastino, che nessuno avrebbe, come tale, mai potuto accettare. Condonare.
Perché no: Michelangelo non è autore “antico”; né “classico” per definizione. Al contrario, egli è quanto di forse più “contemporaneo”, vicino e prossimo a noi si possa pensare.
Scriveva della scultura il Vasari, di un’ “arte che levando il superfluo dalla materia suggetta, la riduce a quella forma di corpo che nell’idea dell’artefice è disegnata.” (Cap.VIII, “Vite”, 1568).
E Michelangelo, uomo, genio senza pari né eguali, non si limita affatto a questo. Non trova semplicemente la forma “nel levare”, come già in uso presso gli scultori di talento. Al contrario: nel sottrarre il superfluo, coglie una promessa nel marmo.
Cattura la sottilissima linea di confine che separa la materia greve dall’Infinito. Raggiunge, in una parola sola, ciò che è Sublime. E la Pietà era; è sublime.
Lo era nei dettagli. Nelle forme. Nelle linee dei volti senza tempo e senz’età di Madre e Figlio, in una perfezione totalizzante che racchiude e riassume in sé l’ideale assoluto di Umanità e Divinità insieme.
Oltre qualsivoglia religione, oltre qualsivoglia riduzione dottrinaria: il volto della Vergine, anzi, della donna, assurge per questo a simbolo universale. Un volto refrattario ad ogni tirannia del Tempo, mistero di assoluta Bellezza.
Un volto, quello di Maria, dietro cui è racchiuso tutto il messaggio pulsante, il cuore stesso del Rinascimento, nonché la filosofia neoplatonica del grande Marsilio Ficino che ivi è sottesa.
Quei cinque gradi di elevazione spirituale della Realtà, dal polo più infimo, fatto di carne ed ossa, il “corpo”; al principio stesso che dà forma e plasma la materia, la “qualità”. Sino all’Anima; sino all’Angelo; sino a Dio.
Ma quell’Anima, quell’Anima al centro, indissolubile intermediaria fra materia e spirito, fra corpo e Dio, altro non è che quell’angelo che Michelangelo “vede” intrappolato nel marmo; che ricerca e scava per liberare.
Mentre propulsore, motore dell’anima in siffatto processo, altro non è che l’Amore stesso: solo l’Amore conduce l’anima a Dio mediante l’attrazione esercitata su di essa dalla Bellezza, nello stesso modo in cui Michelangelo, genio ante litteram, libera il suo angelo e lo consegna all’eterno tramite il culto della perfezione.
Una forza ancestrale, centripeta, un “primum movens” sotteso all’intera arte Rinascimentale. Una costante ricerca, tesa verso un ideale di perfezione spirituale. Di Bellezza.
E Michelangelo, uomo triste, malmostoso, iroso; tormentato, misogino, misantropo, la raggiunse. Lui, proprio lui, con la sua immensa arte, proprio in quest’opera. In questo volto.
E allora, in quel maggio di 53 anni fa, malgrado le gravi immagini che all’epoca restarono indelebili e quelle che scandalizzarono i ben pensanti; malgrado la grave deturpazione subìta; quel volto non perse mai la sua regale, maestosa dignità.
Finanche a dispetto di un oltraggio inflitto alla forma; di un assassinio perpetrato ai danni di un siffatto, ineguagliabile splendore. Eppure, Michelangelo aveva saputo imprimere a quel marmo una potenza sì dirompente, sì devastante, che neppure quei cento colpi di martello e quelle stesse ferite poterono scalfire l’eterna, assoluta grazia di cui si era impossessata, ormai da secoli, non solo quella scultura, bensì l’intera memoria collettiva.
E ad oggi, la Pietà, così opportunamente e meravigliosamente restaurata come tuttora siamo abituati a contemplarla, non sembra affatto recare il minimo segno di offesa alla sua sempiterna perfezione.
E quand’anche impossibile fosse stato, non avrebbe forse perso alcunché della grazia immortale che da ogni dettaglio, da ogni scheggia, da ogni singolo frammento di essa trasuda.
Per contro, invero, solo attraverso un’autentica legittimazione di quanto accaduto, del grave danno, del grave affronto subiti e delle sue stesse ferite, è stato altresì possibile recuperare, con certosino, paziente lavoro di fino, una bellezza che non risultasse più soltanto arbitraria, selettiva. Transeunte.
Ed ecco allora qui condensato tutto il significato di una simile operazione; ma altresì, uno degli svariati motivi per cui la Pietà assurge oggi, ancora oggi, allo status di una delle opere d’arte più immortali, eterne di tutti i tempi.
Quella foggia, grazia, mistero, bellezza; ma altresì resistenza, inattaccabilità, che la rendono perfetto esempio di un’opera consolidata, perdurante nei secoli. Sopravvissuta, malgrado tutto, invulnerabile, immune, agli attacchi tanto del tempo quanto dell’uomo.
Essi potranno infatti scalfirne le superfici, frastagliarne i bordi, amputarne le fattezze; ma mai, mai il centro. Mai il cuore. Che persiste invece imperterrito, inamovibile, compatto, ad ogni duro colpo inferto dalla natura. Così come dalla vita.
Ed è per questo che il tragico episodio della Pietà riflette, non a caso, forse la storia di ognuno di noi.
Perché siamo “marmo”, e siamo “pietra”. Perché malgrado tutto e tutti; malgrado le nostre superfici ormai scalfite dal tempo, logorate dai duri colpi inferti dalla vita e dalle vicissitudini, la nostra essenza rimane solida. La nostra anima, mai si piega.
Siamo marmo, e siamo pietra. Perché malgrado i bordi spezzati e non più levigati, sappiamo ancora ardere sotto la durezza degli spigoli e riaccendere di nuova vita le viscere della terra. Così come la polvere di quei frammenti ormai scheggiati, sia pur ormai silenti e prossimi a sgretolarsi.
Siamo marmo, e siamo pietra. Perché il nostro cuore ha dovuto imparare ad indurirsi dinanzi a certi strazi, a certi dolori, pur di non spaccarsi in due anch’esso. E pur tuttavia, rimanendo a sua volta duttile, forte ed incrollabile al tempo stesso. Sicché oggi, ancora oggi, a dispetto di ogni tempo, oltraggio e ferita, non si è tuttora mai arreso. Mai ancora spezzato.
Siamo pietra, e siamo marmo. Perché lo splendore, così come la bellezza, non è mai casuale. Esso richiede cura, dedizione, attenzione. “Amore”. Sicché anche dietro la coltre di polvere apparentemente più densa ed inamovibile; dietro la più profonda offesa arrecata al marmo, si celano spesso colori e capolavori in attesa di essere risvelati a se stessi, nella loro intrinseca luminosità.
Per restituire nuova dignità alle nostre ferite. Per restaurare, con esse, l’intero, antico nostro essere. E per ricondurlo, alfine, al suo più autentico, vero, originario, sempiterno splendore.
E a patto di ricordarci, sempre, e per sempre, di quale “pietra”; di quale “marmo” siamo fatti.