[…] Eppure, talvolta, anche la lotta verso la cima basta a riempire il cuore di un uomo.”
(“Le Mythe de Sisyphe, Essai sur l’absurde” – Albert Camus, 1942)
Cosa resta di noi mortali, quando il Tempo ha setacciato la via?
Forse un corpo. Forse un’anima. Forse un sogno. O forse, soltanto quello.
V’è chi traccia, insegue desideri di libertà quale dolorosa ambizione. Antica speranza di sopravvivenza. O fors’ancora, quale laica, disperata preghiera di salvezza e di redenzione. E allora, dove cacciarla, dove scovarla, quella promessa d’immortalità?
Forse, per una volta, nella materia: in quei cieli dipinti di blu, dove Edward Robert Hughes, Preraffaellita ed antesignano del più raffinato ed estetico Simbolismo inglese, fa librare la sua giovane, nuda donna – una Valchiria, figura mitologica per eccellenza – in sella al suo cavallo alato, nella scena di un contesto onirico da sogno. È il suo “Sogno Idilliaco”, firmato 1902.
Nubi ovattate. Capelli sciolti al vento. Sguardo rivolto verso il basso, al di sopra di sconfinate immensità.
Tutti ad inseguire un sogno, quali entità radianti, alla ricerca di un caleidoscopio di sensi. L’ostinata volontà di cercare, di credere intensamente al suo disvelamento; e poi, una sacrale devozione alla persistenza di quel desiderio. Di quella memoria.
È il racconto del presagio di un forse comune destino. Quando, ancora avulsi da limiti e frontiere, ci scopriamo a voler solcare i cieli, insufflando il cuore del possibile; per poi ritrovarci, viceversa, a dissotterrare castelli di sabbia sui quali, quasi ignari, ergiamo il nostro angusto presente.
Ostinatamente cozzando, kafkiani cercatori, contro i miraggi dei nostri stessi deserti. Dei nostri sogni mancati. Dei nostri afflati spezzati.
Spezzati, di quelle nostalgie infinite che sono lande desolate, antispazi in cui la temporalità vacilla e il vivere resta sospeso. Dolorose anticamere abitate dal dubbio e dalla negazione; dallo spettro della mancanza e dell’assenza. Anfratti celati, dove i deserti dell’anima si dissodano con l’aratro del silenzio.
Eppure, v’è deserto e deserto. Silenzio e silenzio.
Il silenzio bianco, immacolato, della neve. Il silenzio che protegge, intimo, del buio. Il silenzio ovattato, nero, dell’assenza. Il silenzio rosso, infuocato, della lotta. Il silenzio abissale, siderale, di un cielo rimasto senza stelle a indicare la via.
Silenzi operosi, arrugginiti, ricurvi. Silenzi impigliati, tra le trame della fatica, dell’attesa, della noia. Silenzi psichici; annuvolati; rabbuiati. Silenzi che sigillano, isolano, murano.
Silenzi in cui persino i lillà tremano e i pianeti si eclissano. Silenzi che fanno finta di dormire, e invece rumoreggiano, millimetrici, dietro una coltre di sottesi e speranze taciute. Del vuoto, o della paura. Di una nostalgia bruciante per l’istinto soffocato, strozzato, del volo.
Eppure, talvolta, qualcuno interviene, per restituire a quell’istinto anima e corpo; a quel volo, forma, colore e dignità: ali nuove, talvolta intrise ancora di dolore; talaltra, ancora di tormento. Ma pur sempre ali.
Ali con cui spaziare, di nuovo, tra i cieli della libertà e dell’ideale; al di sopra di quegli abissi di grida, di quel deserto color cadmio che risuona di eco lontane, di nostalgia e di mancanze. Ali con cui presiedere, di nuovo, alla capacità di stupirsi ancora; di ridere ancora; di credere ancora. Di sperare ancora.
Proprio lì, dove i cieli si colorano di nuovo d’azzurro, e il desiderio non appare più quale disperata fuga senza direzione, in esilio forzato dal Tempo. Proprio lì, dove l’alto e il basso si rovesciano, e finalmente si fondono e si confondono.
Lì, dove l’ “altus” non appare più quale dolorosa deiezione verso il basso, castigata precipitazione oltre i confini di un ultraterreno, paradisiaco Eden; bensì, rinnovata, reinventata profondità, in direzione ora invertita, dal “caos” al “cosmos”. E le costellazioni stesse dei cieli, a rispecchiarsi in quei semi di ora guadagnata, meritata immortalità: i tesori stessi, finalmente disseppelliti, delle nostre aridità dissodate.
Ed è proprio così che, col suo “Sogno idilliaco”, Hughes ci conduce per mano verso una ritrovata, reinventata prospettiva dall’alto.
Nel suo cercare, scavare, rivelare maieutico, dormire e forse sognare, Hughes ascolta, lascia pulsare il senso stesso della gestazione dolorosa del desiderio.
Esteta del sogno, ostetrico della mancanza, ne avverte tutto il battito disperato. Il profondo languore. Compie in essa la sua, e con essa nostra, discesa agli Inferi: la sua, nostra catabasi.
Solo per ivi risalirne, quasi redivivo Orfeo dal lato opposto sprofondato, con una perla in mano. Sì, di dolore; e pur tuttavia, preziosa reliquia, frutto dell’eternità tanto agognata: quelle ali che mai nessuno, mai nessuno potrà più strapparci via.
In groppa a un nuovo Pegaso dalle ampie ali a signoreggiare l’aria, ciascuno Valchiria del proprio destino. Del proprio desiderio. Del proprio sogno.
Perché, se lavoro del poeta è scuotere il cielo, attendendo pazientemente che qualche frammento ne cada, compito dell’artista è allora smuovere la terra, senza imbarazzo del cosmo, affinché quell’antica promessa di libertà, di aspirazione verso l’alto, d’immortalità, finalmente, si compia.
E tuttavia, no: non per impartirci lezioni d’eternità. Bensì per restituirci, finalmente, alle nostre stesse ali. E con esse, alle nostre stesse radici. Al più antico, primigenio, nostro essere: al nostro più antico, “idilliaco sogno”.
Quel sogno in grado di ridare nuova vita, finalmente, a ciò che si credeva sepolto; di rileggere il possibile sotto la coltre polverosa dell’irraggiungibile. Di ricordarci che, nonostante tutto, l’umana speranza cresceva ieri, cresce oggi, e continuerà a crescere. Anche domani.
Esattamente come quelle ali. Dalle piume altrettanto lussureggianti delle radici, delle cime, delle fronde e delle chiome. E sempre, da sempre costantemente proiettate, nonostante tutto, verso le più alte vertigini del Cielo.
Serena Fierro