Tragedia e destino: quando l’amore eterna la pittura

Redazione
Tragedia e destino: quando l’amore eterna la pittura

Tragedia e destino: quando l’amore eterna la pittura. Sovente, per curiose trame del caso, o forse, della sorte, esiste una logica sottesa, impercettibile, intimamente idraulica, eppure quasi sadica nella sua apparente imprevedibilità, per cui arte e passione, amore e tragedia si intrecciano ineluttabilmente, fino a tessere la tela stessa della vita umana. Del destino.

E che l’amore, in alcuni casi, sia prevalentemente pazzia, ossessione, tormento, passione, disperazione, bene lo sapeva il più grande pittore preraffaellita che l’Inghilterra abbia mai visto: Dante Gabriel Rossetti.

1848, Londra. Ecco che l’affascinante clima della più elegante città inglese d’epoca vittoriana incontra il Preraffaellismo, corrente artistica che privilegia la pittura italiana anteriore a Raffaello Sanzio, da cui il nome.

Un Medioevo fatato, trasfigurato da romantiche suggestioni, dall’amore per Dante e Shakespeare, Keats e Tennyson; per le atmosfere misticheggianti e gli scenari cavallereschi permeati di mistero.

Ed è proprio l’abruzzese Dante Gabriel Rossetti, caposcuola di tale maliosa corrente pittorica, insieme ai suoi seguaci Hunt, Millais, Burne-Jones e Morris tra i più noti, a riesumare tali suggestioni, a tradurre in estatiche e torbide immagini tutte le più intime pulsioni mortificate da quella nobile, eppure austera e pudica, società vittoriana.

La sublime bellezza femminile

Immagini scontornate dall’ambiguità evanescente del sogno, oppure, al contrario, cristallizzate nella più sublime bellezza femminile. Visi d’angelo, pallore fra il casto e il vizioso, fra il sacro e il profano. Pelle diafana, occhi grandi ed inquietanti. Folta chioma, preferibilmente ramata.

Esattamente come quella che poteva vantare la bellissima, eterea Elizabeth Siddal, detta Lizzie. Di una bellezza delicata ed estraniante, Dante Gabriel Rosetti la elegge dapprima a propria modella, poi a propria musa ispiratrice. E, infine, a propria compagna di vita, sino ad eternarne il volto esangue, il nome e il ricordo nella storia, attraverso i propri capolavori.

Lizzie affascina il pittore e tutti gli altri della Confraternita in virtù di quella sua diafana bellezza e, soprattutto, di quella sua tizianesca capigliatura dalla fulva tonalità. Ma sarà proprio quest’ultima a determinare il tragico destino di Lizzie, il triste epilogo della sua vita.

A far sì che essa collimi tragicamente, quasi per un perverso, sadico senso di ironia della sorte, con quella dell’eroina alle cui fattezze prestò il volto, e che la rese celebre nel mondo della storia dell’arte.

Altri pittori della cerchia, difatti, brameranno la Siddal come modella. Tra questi, in particolare, Jhon Everett Millais, che la sceglie nel 1851 per la sua opera-capolavoro: “Ophelia”, l’eroina shakespeariana impazzita dal dolore, il cui corpo esanime galleggia dolcemente sulle acque dopo che, abbandonata da Amleto, si era data alla morte, annegando tra le morbide rive di un fiume.

Invasato e ossessionato

Per posare nel modo più veritiero possibile, Lizzie rimane ore ed ore, ogni giorno, a macerare nell’acqua di una vasca, tenuta in caldo solo da decine di lampade accese. Ma il tempo scorre, i lumicini si spengono, l’acqua diventa man mano più fredda, e Millais non se ne avvede.

Al contrario: imperterrito, il pittore continua a dipingere forsennatamente, sempre più ispirato, invasato, ossessionato, tanto quanto più Lizzie diventa fragile e vulnerabile. Tanto quanto più la sua bellezza assume un che di rarefatto, di surreale. Di ineluttabile.

Continuando a posare incessantemente per il dipinto, Lizzie si ammala di tubercolosi, e il morbo, minando sempre più il suo già precario stato di salute fisica e mentale, la conduce inevitabilmente ad una grave forma di depressione, nonché ad una totale dipendenza dal laudano.

Frattanto, nel 1860, Dante Gabriel Rosetti l’aveva portata all’altare, dopo dieci anni di tormentato amore per via dei suoi incessanti tradimenti con altre, conturbanti donne, parimenti sue modelle e muse ispiratrici.

Fino a quell’ultimo, ennesimo, grande dolore inferto a Lizzie da tale unione: la morte del figlioletto, prematuramente venuto alla luce. Lutto che le sarà fatale, portandola ad un ulteriore abuso di laudano, nonché, appena l’anno successivo, alla morte.

Tra la realtà e la pazzia

E il pittore, che fine fece il pittore? Nonostante i numerosi tradimenti consumati durante il tormentato matrimonio con Lizzie, il ricordo di lei diviene per Gabriel un’ossessione, dopo la sua tragica dipartita. Rimorso. Angoscia. Inquietudine.

Tale e dilaniante è il senso di colpa che egli trova rifugio in uno uso smodato di cloralio, veleno tanto potente ed ipnotizzante quanto il laudano stesso. Gli occhi si fanno funerei, la sua visionarietà inizia ad accogliere incubi ed allucinazioni, a metà strada tra il vero e l’immaginario, tra la realtà e la pazzia.

E prima che il corpo di Lizzie venga inumato, Gabriel le infila tra i capelli un quadernetto di poesie d’amore a lei dedicate. Ebbene, verso la fine della sua esistenza, ormai sempre più devastato dall’alcol, dalla droga e dai debiti, viene pervaso, oltre che da quella per la sua sposa scomparsa, altresì dall’ossessione di pubblicare proprio quelle liriche d’amore, la cui unica copia giaceva, tuttavia, proprio nella tomba.

Fra gli amati capelli rossi della sua dolce Lizzie. Così, di notte, recatosi al cimitero e dissotterrata la bara della povera Lizzie, vi recuperò il libriccino. Ma non solo.

All’apertura della stessa, come egli stesso avrebbe raccontato, la salma sarebbe trovata avvolta in un manto di capelli rossi: la bellezza di quella eterea creatura sarebbe rimasta magicamente intatta, e quei capelli, i suoi famosi capelli rossi, sarebbero cresciuti a dismisura, sino a rivestire completamente l’interno della bara. Come straordinari cespugli di fiori.

Le ossessioni

Naturalmente, nessuno mai gli credette. Ma quella visione, così perturbante, così pervasiva, così reale, ne accrebbe ulteriormente le ossessioni, fino a condurlo alla più completa follia. Fino alla morte.

E, se è pur vero che la moralista società vittoriana mai lo rimpianse e sempre lo esecrò, egli è entrato a pieno titolo, di diritto, nella leggenda. Insieme alla memoria di Lizzie Siddal. Così come, ancor prima di lui, di lei, di loro, fu per la dolente Ofelia.

Tra cronaca e letteratura, mito e leggenda, sogno e realtà, la storia dell’eroina shakespeariana si intreccia inestricabilmente con quella di Lizzie, destinata a diventare una vera e propria, piccola, grande Ofelia in carne ed ossa. E forse, con quella di ogni donna non amata.

Una non amata che galleggia non più su un fiume finemente drappeggiato di salici e gigli, di tenere viole e profumate margherite. Bensì in una vasca di vecchio tufo, col solo ornamento di pietose, avvolgenti candele. Di tenui lampade e fredde nebbie. Di quei pochi fiori che qualcuno aveva colto per lei.

Il dipinto di Millais

E nel dipinto, nel dipinto la creatura di Millais ha tutto il livore della morte sul volto esangue. Le delicate trasparenze dell’acqua. Le ombre scure e verdastre. I delicati riflessi dei fiori. Tutte eleganti, suggestive metafore riprese dalla magistrale penna di Shakespeare, di Rimbaud, di Flaubert. Dalle pennellate di ogni artista, di ogni tempo, di ogni secolo e di ogni epoca.

Perché senza secolo, senza tempo è l’ineluttabilità di un fato crudele, di una morte orchestrata da quasi sadici dei, che sembrano prendersi gioco dell’umana fragilità. Nell’arte come nella vita reale.

Perché lei, Ofelia-Lizzie, poco più che fanciulla, poco meno che donna, tanto presa dal proprio amore, perde il senno dinanzi al rifiuto. Che sia per tradimento, per sventura, o per dissimulata follia dell’altro. E la morte, celata da un’altrettanto ingannevole cornice di fiori, stende inesorabile il suo velo, laddove l’amore ha ceduto il posto ai giochi di vendetta, di intrighi, di tradimenti.

Perché lui non era uno qualunque: era Amleto, uno che sapeva incantare con le sue parole. Ed era, al tempo stesso, Gabriel, uno che sapeva ammaliare con la pittura, con la sua arte. Mentre a lei, a loro, toccò in sorte l’individuo più contorto e complesso che si possa immaginare: il principe del dubbio.

Quanto può essere grande l’amore di una donna?

Dramma, tragedia, omicidio, suicidio. E soprattutto, amore. Ma quanto è grande, spesso, questo amore? Quanto può essere grande l’amore di una donna? Quanto quello di Lizzie, quanto quello di Ofelia?

Immenso, incommensurabile, puro: spesso, è quella specie di amore che può gettare in un abisso. E difatti, è proprio in un baratro che precipita Ofelia, spinta giù dal rifiuto di lui e dalla perdita dell’illusione d’amore.

L’acqua scura, le braccia aperte, in quel gesto arreso, impotente. I fiori che galleggiano sulla superficie. I capelli di lei, lunghissimi e mossi. Il suo viso. La pelle candida, quasi trasparente. Gli occhi sbarrati di stupore. Le labbra socchiuse, dopo che le ha abbandonate l’ultimo respiro.

Ecco: questa è Ofelia, nella sua fragilità, nella fine, nella sconfitta. Nella morte. E questa è Lizzie. Non ha peso la delusione nel loro corpo, che si lascia andare tra mille splendidi fiori. C’è qualcosa in lei, in loro, di sublime, e di disperato al tempo stesso. Uno struggimento, un anelito di poesia.

Mi ha sempre fatto una tenerezza infinita Ofelia. E mi ha sempre fatto una tenerezza infinita Lizzie Siddal. Scabrosamente eleganti nella loro follia composta, in un dolore che forse nemmeno Shakespeare seppe raccontare fino in fondo. E forse, nemmeno Millais del tutto rappresentare. Entrambe travolte dall’acqua, implacabile e crudele come sono certi amori. Così potenti da non lasciare scampo, da non lasciare risposta.

Come certi interrogativi, eterni e senza risoluzione

Perché quanto costa essere sensibili, quanto costa essere fragili, in un mondo talvolta pieno di amarezza e disincanto, che non ammette tenerezza, che non perdona l’innocenza, che non accetta l’illusione di chi ancora necessita di sentimenti autentici, veri, reali?

Quanto possono far male la delusione, il rifiuto, il distacco, l’addio? Il senso di colpa, il rimorso, il rimpianto? Lì, in quei recessi profondi di cui forse solo alcuni di noi sono capaci, sovente bruciano forte. Forte come la vita. Forte come la morte. Forte come il dolore, forte come la passione. Forte, come l’amore.

Serena Fierro