E dagli occhi, dagli occhi di Lucifero non può non stillare allora una lacrima di tristezza, in cui a cristallizzarsi è il suo stesso destino. Un destino di cui egli medesimo s’è fatto artefice.
Una lacrima, in cui v’è tutto il senso d’una terribile evoluzione: dal Bene al Male; dall’Amore all’Odio; da prediletto a reietto. Da eletto a maledetto.
Non meno simbolica, né meno significativa, è la matericità stessa di quella lacrima: nulla di etereo; di leggiadro; di evanescente. Al contrario: una perla dura, tangibile. Meravigliosamente, dolorosamente terrena. Pesante, concreta: come la condizione umana. Come la delusione umana. Come il dolore umano. Come la rabbia liquida, pregna di sconfitta e di quasi quieto risentimento, che fermenta dietro quelle iridi terree.
Un’espressione umana, fin troppo umana allora, dietro la quale è altresì impossibile non riconoscere troppo di Lucifero in noi. Contraddittori impasti di fango e Cielo; capaci di grandi bontà e d’immani atrocità al tempo stesso; vittime d’un delirio d’onnipotenza in virtù del quale spesso, troppo spesso, dimentichiamo d’esser non padroni, bensì semplici ospiti del mondo.
E in Lucifero rivediamo allora noi stessi nell’istante medesimo in cui ci siamo, nostro malgrado, persi. Arresi. O forse, stavamo per farlo. Perché, come Dante c’insegna, il Paradiso può tramutarsi in Inferno in un istante. E viceversa.
Tutti, ad un certo punto della vita, peccatori, gettati fuori a calci dal Paradiso.
Tutti, ad un certo punto dell’esistenza, angeli caduti per aver forse troppo osato aspirare.
Tutti, ad un certo punto, in bilico tra la rassegnazione all’odio e il barlume d’una speranza malgrado tutto dura a morire. E che ancora sembra sussurrarci che, nonostante tutto, “non tutto è perduto”.
Il Lucifero di Guillaume è allora, per certi versi, metafora dell’uomo, di noi tutti. E di noi tutti è chiamato a rappresentare non solo la sconfitta, la perdizione. Ma altresì il pentimento, il rimorso; il desiderio di rivalsa, la disobbedienza; il senso di vergogna, finanche con noi stessi, per i nostri sogni mancati; l’ambizione, il non piegarsi alle leggi imposte dall’alto; l’aspirazione frustrata a rendersi altro da sé. Forse più perfetti, più angelici: più celestiali di quanto la nostra natura prettamente umana, perfettibile e corruttibile a un tempo, non sia.
Talvolta sconfitti, ancor oggi umiliati per quello che fu il primo peccato dell’umanità: un moto d’orgoglio. Ma non per questo vinti. Non per questo privi di un’immediata reazione, pronti a rialzarci; a dare fondo alle nostre proprie forze.
Per urlare di rabbia. O di speranza. Per ridar vita alle nostre ali, sia pur ormai scure, quasi nere. Spente. Ripiegate sulla schiena, senza più forza di volare. Senza più il classico vigore, bianco e splendente, degli angeli.
E per quanto massimo simbolo d’arroganza e superbia; di peccato e d’orgoglio; di rabbia e d’ardimento; angelo caduto per eccellenza, “creatura ch’ebbe il bel sembiante”; colui che fu posto da Dante nel nono cerchio dell’inferno; il Lucifero di Liège non può non essere allora un’opera universale e senza tempo. Una vertigine in marmo, che fa tremare di soggezione e, al contempo, di commozione chi la osserva e contempla.
Perché Lucifero, con la sua ribellione e sofferenza, non può non riportare alla mente le nostre stesse debolezze; le nostre sconfitte nel quotidiano. Pone forse noi medesimi e il nostro stesso essere più vicini al travalicare i limiti imposti; al riuscire, con qualunque ingegno, al raggiungimento dei nostri intenti più alti ed arditi. Sì da farci sentire, alfine, forse più vicini, più affini ad un Lucifero caduto di quanto lo saremmo verso Cristo e la sua sofferenza. Più compresi, più “umani”. Meno soli.
Più portati a chiederci quale angelo, per davvero, alberga in noi.
Un angelo ribelle, pieno di dolore e risentimento? Mostro terribile che inganna e corrompe, e per questo costretto ad un eterno esilio negli Inferi? O, non piuttosto, creatura mutuamente, eternamente divisa in due, tra una fragile natura umana ed una angelica, più alta e sublime?
“Quis ut Deus?” (“Chi è come Dio?”)
L’interrogativo, eterno, immortale e forse senza speranza, nel cuore dell’uomo. E la risposta, in ciascuno di noi.

Serena Fierro