Una giornata per ascoltare la voce della sofferenza
La riflessione di Serena Fierro sulla giornata mondiale della salute mentale

Una giornata per ascoltare la voce della sofferenza ( di Serena Fierro ). Una giornata, quella di oggi, che ci riguarda da vicino. Un tema, quello di oggi, che ci tocca forse tutti. Indistintamente.
Perché di salute, e di “salute mentale”, non si parla forse mai abbastanza. E perché di sofferenza, e di sofferenza dell’anima, non si discute, forse, mai abbastanza.
E pur tuttavia, quando avviene, lo si fa sovente in maniera errata. “Salute mentale”, ed ecco che, quasi spontaneamente, affiorano alla mente immagini dissonanti.
Nomi, terminologie, definizioni che sempre, quasi sempre, incutono timore, paura, dubbio. Spaventano, angosciano, inquietano, lasciando sovente adito all’errata convinzione che sperimentare dolore, fragilità, malessere, sofferenza, sia esclusiva, inevitabile prerogativa di una mente ormai deviata.
Distorta. Di colui o colei che abbia perso irrimediabilmente il senso del proprio esistere e del proprio raziocinio, sino a fuoriuscire, alfine, da sé. Sulla strada d’un ormai irreversibile punto di non ritorno.
Camici bianchi e sale d’attesa. Cliniche psichiatriche e reparti specializzati. Devianze psichiche e perdite di senno. Quattro mura ed una stanza chiusa, a tu per tu con se stessi; o forse, con uno sconosciuto. Forse tanti, o uno soltanto: tutti atti, loro malgrado, ad ergersi a quasi inquisitori del nostro più intimo, profondo dolore.
Come se, del resto, l’umano dolore fosse qualcosa di misurabile, quantificabile. Come se l’umano dolore dovesse appositamente necessitare di luoghi consacrati, di codici standardizzati; di numeri consolidati, di etichette, molecole da laboratorio; di protocolli, diagnosi da manuale e sigilli di carta con cui essere doverosamente incasellato, definito, attestato.
Per poter essere così, e soltanto così, potenzialmente legittimato, compreso, giustificato.
Come se scivolare entro quegli abissi, sovente oscuri, del proprio animo, com’è lecito che talvolta accada a ciascuno di noi nella vita, fosse un atto tutto sommato illegittimo, pretenzioso.
E non piuttosto, un doloroso quanto non sempre evitabile accidente nel corso naturale della propria esistenza. E, men che meno, un diritto da preservare, tutelare.
Eppure, in una società vittima del comune, atavico pregiudizio secondo cui avvertire dolore, sperimentare sofferenza, voglia dire aver automaticamente smarrito il proprio sé; in una società costantemente protesa a premiare l’efficienza, la performance impeccabile, e a condannare la fragilità alla pubblica gogna.
In una società che ci esige ad ogni costo invincibili, incrollabili, inappuntabili, invulnerabili; che ha medicalizzato il disagio, disumanizzato il sentire, mistificato e strumentalizzato l’essere; ebbene, sperimentare attimi di vulnerabilità, di ripiegamento, d’impotenza, con cui si è prima o poi inevitabilmente chiamati a fare i conti, è avvertito tuttora inesorabilmente quale sinonimo di inammissibile, non assolvibile debolezza.
E, in quanto tale, come qualcosa da altresì nascondere, celare; o forse peggio, vietare. Vietarsi. Agli occhi altrui e, finanche, di se stessi.
Ed ecco, allora, alcuni di noi soffrire in segreto, in silenzio. Forse nel buio d’una stanza; o forse, all’opposto, tra il caos d’una folla imperante. Pur di coprire, zittire qualcosa che s’agita e rumoreggia fin troppo forte dentro di noi. Pur di ignorare, respingere, reprimere quel malessere nel malcelato, disperato tentativo di “distrarsi” da esso. Di dimenticare.
Ed ecco allora quel dolore prender vie traverse; amalgamarsi, diluirsi, offrire di volta in volta, e quasi inavvertitamente, sentieri fallaci. Forme altre, spesso sotterranee, subdole, idrauliche, pur di essere esperito, gridato, urlato. O forse, soltanto compreso, soltanto accolto. Soltanto accettato. Soltanto ascoltato.
Come quelli che comunemente siamo soliti definire ossessioni, disturbi compulsivi, dipendenze. E che invece altro non sono se non inconsci tentativi di estraniarsi, di anestetizzarsi da un dolore forse troppo grande; da qualcosa che affonda forse troppo in profondità le radici; o forse, soltanto troppo a lungo ivi rimasto sopito, inespresso: inascoltato. Quella paura troppo difficile da affrontare; quel fardello troppo pesante da trascinare; quello stress emotivo troppo pesante da reiterare. Quella vita spesso troppo, solo troppo faticosa, da affrontare.
Ed ecco allora il vuoto ingigantirsi; l’ansia montare; il panico stringere un nodo in gola. Ecco la tristezza; un futuro a tinte sempre troppo fosche; un cielo sempre troppo cupo, e sempre troppo nero, cui dover guardare.
Ecco quella morsa, quel pugno nello stomaco, sempre troppo forti da assestare. Ecco quel sapore di canfora; di chiuso; di rancido; di narcotico.
Ecco quel sentore, talvolta, di adrenalina, di vertigine, di ammoniaca; talaltra, di nausea, di mercurio, di pillole. Pillole inghiottite per non sentire, per non pensare; per non pensarsi. O forse, per correre soltanto più veloce, o solo troppo lontano: a mille miglia di distanza dalla solitudine.
Ecco, talvolta, quell’ultima, annacquata, disperata e profondamente triste goccia d’alcool in fondo ad un bicchiere. In fondo a un calice di tristezza, sempre troppe volte poggiato sempre troppo vicino al cuore. Nella fallace illusione di rendere meno agre, e meno vuota, una forse troppo amara esistenza.
Eppure sempre, quasi sempre, ogni siffatto, maldestro tentativo di rifuggire il dolore porta con sé il sale alacre delle lacrime. Versate o trattenute che siano.
Sempre, quasi sempre, porta con sé stimmate di chiarezza ulcerata; lampi di lucidità; scrosci di pioggia, non sempre tali da esser visti, o da far rumore, sulle sedie.
Sempre, quasi sempre, oscilla, osceno, sulle grucce della tristezza; o viceversa, d’un Carnevale a fiori, mascherato di finti sorrisi e di falsi colori.
Sempre, quasi sempre, stilla in occhiaie violacee; nei calici dell’insonnia.
Nelle cicatrici paonazze dell’attesa; o dell’angoscia. Nel tempo che scorre troppo lento. O troppo in fretta. Ed altrettanto quasi sempre si nasconde nella rinuncia, nella disperazione. Nelle urla o nel silenzio. Nella stanchezza o nella rassegnazione.
E allora forse, forse quelle che pur sovente siamo soliti definire “patologie”, “deviazioni”, “ossessioni”; “dipendenze”, “depressione”; nondimeno “pazzia”, “malattia mentale”, è in realtà altro.
Non un “difetto” della mente: un corto circuito prettamente neurologico; un mero deficit di serotonina; un’alterazione puramente fisiologica, dopaminergica. Al contrario: sono forse esse, tutt’esse, l’unico linguaggio, il solo modo ancora superstite che la nostra anima abbia trovato per avvertirci, per suggerirci che la rotta intrapresa sia clamorosamente errata.
Una bussola in grado di vibrare con tanta più violenza quanto meno la direzione della vita s’accorda alla sua più intima, interiore vocazione.
È forse allora il dolore di chi vede scorrere i giorni come un fiume che trasborda altrove, distante dalla foce che desiderava. È forse allora la malinconia di chi avverte il proprio passo non imprimere più forma al tempo, e la propria energia non orientare più la materia in forme a sé confacenti.
È forse allora nient’altro che il volto più severo, più amaro e meno gradevole, della verità: una verità atta a ricordarci che quasi mai la vita è neutrale; che se non vissuta in conformità al proprio codice interiore, si corre forse il rischio di spegnersi lentamente, e inesorabilmente, in una forma non più suscettibile a riconoscerci e a contenerci.
Non tristezza, non rabbia, non apatia quali semplici emozioni, ordunque. Bensì, come fenomeno cosmico della propria esistenza e, al tempo stesso, espressione d’una tragedia tutta individuale, tutta interiore.
Tutta nostra, in se stessa consunta. D’un verbo interiore inabile a trovare, in determinati frangenti dell’esistenza, il proprio spazio, il proprio ruolo, il proprio posto nel mondo. In questo mondo. E forse, anche in se stesso. O perlomeno, non ancora.
E allora, questa giornata, per la prima volta inaugurata nel già lontano 1994 – e a sua volta già transitata attraverso il primo step della grandiosa riforma Basaglia (1978), nonché l’abolizione di quelli che, pur fino a non pochi decenni fa, si solevano ancora definire “manicomi” – nasce appositamente per ascoltare la voce di chi, siffatto spazio, siffatto posto, siffatto ruolo, in siffatto mondo, non lo ha, suo malgrado, ancora trovato.
Per abbattere quel muro d’invisibilità, d’indifferenza dietro il quale, sovente, non è sufficiente urlare per essere uditi. Per sentirsi finalmente validati, legittimati, riconosciuti: visti, finalmente visti, nel proprio dolore.
Per ricordare, per ricordarci, che nessun dolore, nessuna solitudine è piccola; e che, in qualsivoglia caso, siffatto dolore, pur piccolo o grande che sia, merita a sua volta d’esser visto, accolto, abbracciato e riconosciuto.
Affinché, seppur alla vita abbiamo chiesto un fiore e ne abbiamo ricevuto in cambio cactus di spine e tristezze, finanche da queste ultime è sempre, pur sempre possibile far sbocciare di nuovi fiori e di splendidi germogli.
Sì da ricordare a noi stessi che quel fiore, maturato tra le avversità, non sia soltanto simbolo di bellezza; ma altresì, di straordinaria forza. Che è possibile fiorire proprio liddove il terreno è più arido; proprio liddove nessuno si aspetterebbe alcunché.
Che lì, proprio lì, è ancora possibile schiudersi; resistere; metter radici.
Perché è forse proprio nei luoghi in apparenza più infruttuosi ed impervi; proprio nei momenti più ardui e difficoltosi, che emerge, alfine, la vera essenza di chi siamo.
E quel fiore, sì fragile in apparenza, non potrà non portare con sé una storia di resistenza silenziosa. Di coraggio nascosto. Di una rinascita capace, infine, di far breccia proprio tramite la resilienza.
E forse il segno che, quand’anche tutto sembra ostinatamente contrario e ormai prossimo alla fine, si può forse invece ancora rinascere. Si può forse ancora fiorire.