Una luna rosso sangue specchio dell’umana disperazione
Un frammento di una poesia di Saffo guida Serena Fierro in questa riflessione sulla solitudine

Una luna rosso sangue specchio dell’umana disperazione. Esistono momenti di estrema solitudine. Tristezza, sconforto. Finanche, di amara disperazione.
Esiste, sovente, una cruda verità: quella che è; non quella che, conforme ai nostri più intimi desideri, potrebbe essere. La condanna: il libero arbitrio. La facoltà di scegliere. Eppure, non sempre nostra: quella degli altri.
E se le altrui volontà potessero effettivamente acconciarsi alle nostre, avremmo forse una formula per la felicità. Eppure, siffatto privilegio non sembra affatto arridere all’uomo, sovente condannato, piuttosto, ai saliscendi delle passioni. Agli andirivieni della fortuna. O peggio, della disperazione.
D’altra parte, se non fossimo eternamente, ineluttabilmente insoddisfatti, infelici; se non fossimo perennemente in bilico, alla costante ricerca di qualcosa; sospinti dalla mancanza, frementi di desiderio; non vi sarebbero forse letteratura, musica, poesia. Né vi sarebbe, in effetti, arte.
Se fossimo perfettamente, pienamente felici, sì da non aver sentore né coscienza della nostra medesima felicità, nondimeno esisterebbero paure, guerra, dolore. Concimi dell’arte stessa.
Niente Balthus, Bach, Boiardo; niente Gotico, Espressionismo, Romanticismo; niente preghiera, simbolo, storia. Niente culto della memoria. E della passione.
E nessuno, nessuno sguardo al cielo.
Ben lo sapeva Saffo, aristocratica dell’isola di Lesbo, che forse Ereso partorì, e Leucade disfece; e che, quasi duemilasettecento anni fa, conobbe come pochi tale destino. Come Cavalcanti, Catullo, Stendhal.
L’amore che brucia il ventre. La passione destinata ad infrangersi contro il reale. Il sentimento inappagato, privo di compromessi, smisurato: questo, tutto questo porta al suo canto eolico. E a quel suo struggente, appassionato “Ultimo canto” di leopardiana memoria (1822).
Saffo conferma, qualora ve ne fosse ancora bisogno, che siffatta poesia, siffatto “canto”, non potrebbero che nascere da un’intima predisposizione dell’animo umano a filtrare e a plasmare ciò che altri cuori non saprebbero che rendere forse in misura volgare.
Ed ecco allora che anche l’amore è tempesta corporale: squarcia il petto e le viscere, “vien tagliando con tal forza che lo spirito fugge via e solo l’apparenza rimane, morta, in sua signoria.”
Ed ecco, allora, Saffo invidiare un uomo, uno qualsiasi, uno di cui non rimarrà traccia né memoria alcuna; eppure, in tale occasione, in tutto “simile a un dio”, solo per il privilegio celeste, di cui gode, di poter ascoltare la voce appena sussurrata, accennata, della persona amata.
Privilegio cui non tutti, non sempre, è dato di godere.
E allora, eccola lì: lei, lei sola, ad osservare la luna.
Non tutti siamo soliti scrutare il cielo. Eppure, quasi duemilasettecento anni dopo, uno sguardo furtivo al cielo, nella speranza di veder comparire d’improvviso quella luna eclissata di rosso, tinta di un significato per ciascuno diverso, forse, forse un po’ tutti, stanotte, lo abbiamo lanciato.
Ed esso non potrà che richiamarci alla mente la nostra sempiterna, immortale Saffo. I cui versi, a distanza di secoli, permangono, ancora oggi, incisi nella pietra:
“Tramontata è la luna
e le Pleiadi: la notte è al suo mezzo,
il tempo scorre,
e io dormo sola.”
(Saffo, FR. 168 B, esametro dattilico – VI sec. a.C.)