Valle Caudina: 30 anni fa “Tommaso Giaquinto ritrovato”
Valle Caudina: 30 anni fa “Tommaso Giaquinto ritrovato”. «Non c’è niente da fare, il Potere, pur continuando a dichiararsi tradizionalista, conservatore, protettore della cultura occidentale, in realtà ha deciso di non conservare nulla, di ignorare ogni tradizione e di essere completamente privo di ogni rispetto per la cultura, appunto, occidentale».
Oggi come il 1970
Così annotava Pasolini a Bolzano, in cerca di luoghi per il suo Decameron. Potrebbe essere letto oggi come nel 1970, potrebbe essere scritto oggi come allora così come parimenti potrebbe al contrario essere stato denegato allora come oggi.
Torniamo invece indietro di qualche anno, esattamente trent’anni fa. Il 24 di aprile del 1993 ebbe inizio Tommaso Giaquinto «ritrovato». La mostra che aveva come scopo lo studio, la riscoperta e la riproposizione della figura, fino a quel momento di fatto sconosciuto, di Tommaso Giaquinto, «pintore frescante» della cerchia giordanesca vissuto tra il XVII e il XVIII secolo.
E dove tenerla se non nel luogo dove più nitido e importante vive il suo segno e la sua vicenda artistica? Dove se non in quello scrigno di cultura barocca che è la chiesa di San Sebastiano di Moiano? Non è forse precisamente elegante parlare di se stessi, tuttavia ciò si rende necessario per raccontare, succintamente per quanto possibile, una storia che rischia di disperdersi col volgere del tempo sempre più incipiente.
Progetto ambizioso e spericolato
Cinque persone, il compianto Umberto Bile, Amerigo e Marcello Ciervo, Andrea Massaro e chi scrive, lavorarono a questo progetto ambizioso e felicemente spericolato se pensiamo al contesto in cui avvenne. Le origini di questa iniziativa, per molti versi rimasta unica, muovevano dalla riflessione sui profondi segni degenerativi del tessuto sociale e culturale di questo territorio, già al tempo più che manifesti.
Ci parve dunque conseguente pensare alla chiesa di San Sebastiano non solo banalmente come un contenitore, una preziosa cornice, una trovata museografica gratificante. In realtà anche la chiesa di San Sebastiano versava in condizioni assai critiche, vieta da incuria, dimenticanza e gestioni oltraggiose che ne avevano procurato danni ingenti e purtroppo non più emendabili. Il fenomeno indefettibile della banalizzazione del quotidiano aveva relegato alla invisibilità una delle chiese più significative della Campania barocca.
Spazio editoriale
Quindi non solo il recupero della vicenda di un pittore dimenticato, ma anche il ‘sacrario’ dove è la silloge di tutta la sua vicenda, furono i nostri intenti iniziali. E per dar corpo a tali intendimenti, per consentire di porre il punto sulle ricerche e gli studi di storiografia caudina in un panorama a riguardo assai desolante (tranne ben poche eccezioni, allora come purtroppo tuttora), fu subito chiara la necessità di allestire uno spazio editoriale dove far convergere le ricerche che alcuni di noi avevano condotto, ciascuno per la propria parte.
Nacque così l’idea del catalogo della mostra, pubblicato in un contesto prestigioso come quello di Electa-Mondadori. Anche questo non era mai stato, nelle nostre zone, anche solo ipotizzato, immaginarsi riuscire a realizzarlo. Se era infatti pensabile la produzione e la realizzazione di mostre importanti, in ambiti istituzionali preminenti come per esempio il museo di Capodimonte, molto meno istintivo e scontato era l’ideazione e la realizzazione di una operazione di questa tipologia e con questa ambizione in una terra, quella caudina, culturalmente inchiodata a una marginalità inesorabile.
Non è chi non veda quindi le non lievi difficoltà organizzative che si presentarono fin da subito. A molti fu chiesto, molti meno risposero come peraltro ci si attendeva. L’amministrazione comunale di Moiano del tempo, l’arciconfraternita del SS. Rosario di Moiano e alcuni privati furono i coraggiosi ‘investitori’ che vollero infine scommettere su questa strana cosa, della quale naturalmente non si comprese proprio tutto sulle prime, stante il fatto per cui niente del genere era mai stato pensato in questo nostro contesto.
Tommaso Giacquinto ritrovato
Nacque così Tommaso Giaquinto «ritrovato». Un itinerario pittorico in Valle Caudina. Il catalogo della mostra, con la presentazione di Nicola Spinosa, allora soprintendente al polo museale di Capodimonte.
Ci si rese subito conto che quel volume, così insolito nella sua origine, nella sua cifra, per le ambizioni che incarnava, con la copertina ideata da Mimmo Paladino e che divenne a sua volta simbolo di tutta l’operazione, non atteneva più solo alla figura di un artista barocco, non solo a un monumento insigne come la chiesa di San Sebastiano, ma proprio al complesso prezioso e negletto di una terra vista per la prima volta come un organismo omogeneo, trama di un ordito prezioso e niente affatto defunto.
Non per un caso, per la prima volta le opere del Giaquinto costituirono involontariamente un legante territoriale e culturale tra le comunità che avevano visto il suo passaggio. Sant’Agata dei Goti, Moiano e successivamente Casapulla con Montoro. Il titolo volle essere un chiaro riferimento e un omaggio a Mario Rotili, che aveva provato nel 1971 a dare una prima lettura critica del pittore montorese.
Superando non poche difficoltà tecniche (si provi per esempio a immaginare che cosa potesse comportare il solo tema del trasporto delle opere provenienti dalle località limitrofe e più in generale i problemi tecnici legati al complesso dell’allestimento), la mostra ebbe inizio e con essa tutta una vicenda che poi si sarebbe sviluppata nel corso di questi trent’anni.
Nel giorno della sua inaugurazione numerose furono le rappresentanze istituzionali della soprintendenza di Capodimonte e quella di Caserta e Benevento, per la prima e unica volta unite in un medesimo intento. Gian Marco Jacobitti, della soprintendenza di Caserta e Benevento e Nicola Spinosa, soprintendente di Capodimonte, vollero essere i primi visitatori della mostra.
Il ‘caso’ Tommaso Giaquinto «ritrovato» ebbe risonanza nella stampa e nella televisione nazionale. E d’altronde la mostra su un misterioso pittore del Seicento nella marginale provincia di Benevento, in un piccolo e ancor più marginale comune, in un contesto che mai aveva visto niente del genere, non mancò di incuriosire le redazioni. E non mancò di attrarre infine i visitatori, numerosi malgrado la scarsa consuetudine e la non immediata reperibilità geografica (è utile ricordare come al tempo non fosse ancora diffuso l’uso dei sistemi di puntamento satellitare).
Ma una mostra, per quanto importante, non investe solitamente le conseguenze che si riverberano su eventuali vicende successive. Resta un catalogo, prezioso punto di riferimento per gli studi, ma non oltre.
In questo caso invece non andò così, la storia non ebbe termine. La soprintendenza di Caserta e Benevento, ormai pienamente investita del caso, decise di inserire il restauro degli affreschi del Giaquinto in San Sebastiano nei propri fondi ordinari, istituzionalmente erogati per le operazioni di restauro considerate più importanti.
Per dare solo un’idea, a causa della scarsità di tali fondi in quel momento erano in corso restauri alla Reggia di Caserta e poco altro. Ai quali tuttavia si aggiunse il restauro di San Sebastiano a Moiano. I lavori partirono ufficialmente nel 1994, dopo l’apposizione del decreto di vincolo, affidati alla OMOU di Antonio Iannace.
E non furono limitati al ciclo di affreschi di Giaquinto, come inizialmente previsto, ma proprio in considerazione della sua importanza e della ineludibilità di un suo recupero, fu deciso di restaurare l’intero assetto interno della chiesa. Senza soluzione di continuità, per quasi dieci anni i lavori non hanno mai incontrato interruzioni, ogni lotto è stato puntualmente realizzato. E chi è al corrente dello stato poco commendevole in cui versano i finanziamenti dei fondi ordinari per i restauri può facilmente intuire quale significato questo possa presentare.
Terminati i restauri, non restò che pensare a una inaugurazione della chiesa finalmente restituita a buona parte della sua bellezza originaria. E non restò che pensare a un altro volume, direttamente correlato a quello di dieci anni prima ma che avesse al contempo una vocazione e uno scopo differenti.
Fu pubblicato dunque nel 2003 Tommaso Giaquinto. Restauri e nuove acquisizioni. Il quale già dal titolo dichiarava l’intento di presentare tutte le risultanze conoscitive emerse proprio grazie ai restauri, e alla acquisizione di tutte quelle opere del pittore non ancora note, quando non totalmente inedite.
Come per il precedente di dieci anni prima anche il successivo volume fu pubblicato per i tipi di Electa-Mondadori, determinando così una diffusione importante proprio ai fini di una conoscibilità ancor più consolidata. Il 27 settembre del 2003, ormai quasi venti anni fa, la chiesa di San Sebastiano fu riaperta finalmente al culto e alla ammirazione dei visitatori. I quali hanno potuto per la prima volta vederla come mai era stato possibile prima a causa delle gravi manomissioni subìte nei decenni precedenti.
Parentesi luminosa
La commistione di linguaggi provenienti dalla storia, dall’arte, dalla musica, dalla etnografia, fu in quel 1993 una parentesi luminosa nella materia oscura del quotidiano. Una sorta di piccola genesi in quello che al tempo era considerato impensabile sotto il profilo della proposta culturale poiché semplicemente non ne esisteva alcuna.
Il fenomeno dell’associazionismo volto all’attenzione delle istanze culturali si sarebbe sviluppato soltanto tempo dopo. E quasi mai purtroppo adeguatamente, come ho già avuto modo di dire in un altro articolo. Quel quotidiano sarebbe presto tornato nella sua oscurità, ma questa volta con una opportunità di consapevolezza inedita.
Da quel momento in avanti tutti, che fossero semplici cittadini o istituzioni, avrebbero sviluppato una forma di attenzione del tutto nuova, ormai non più evitabile. Certamente quel singolare pozzo di effluvi barocchi che è la chiesa di San Sebastiano ha dovuto registrare in seguito altre manomissioni, più o meno sanabili, ma altrettanto certamente si è nel tempo affermato perlomeno sapere di doverne rispondere alle istituzioni e alla comunità.
Il che non è esattamente poca cosa se si ricorda quale fosse lo stato e soprattutto la percezione che di quel luogo permanevano prima del 1993.
Trent’anni sono trascorsi, un tempo che è anche una galleria immaginaria dove personaggi quali Gerard Delille, Renato Ruotolo, Marcella Campanelli, Mario Alberto Pavone, Nicola Spinosa, Tomaso Montanari, hanno variamente intessuto la loro presenza con lo sciàmito dei colori di Tommaso Giaquinto.
Che cosa realmente è stato Tommaso Giaquinto «ritrovato»? Perché si è trattato di un unicum che non si sarebbe più ripetuto? Perché il suo portato culturale rilevante? Dove si trova, al di là di un indubbio approccio rigoroso, scientifico e organizzativo, il suo senso più profondo e che lo pone ormai storicamente come un vero terminus ante e post quem?
Il colpo di maglio alle liturgie
Fu il colpo di maglio su ogni liturgia degli alibi che spalanca la strada alla mediocrità dei rinunciatari, di tutti quegli officianti del niente che tempellano ogni giorno paghi della loro irresolutezza. Fu la prova di come cinque individui, privati cittadini si direbbe in altri contesti, potessero riuscire a convogliare idee, forze e risorse tali da porre le istituzioni a riflettere su alcune irrimandabili responsabilità.
Fu il mostrare quanto possa essere efficace la cooperazione virtuosa tra le istituzioni e i cittadini. Fu il riuscire a plasmare una proposta culturale importante che avesse un suo proprio statuto di prospettiva storica in una terra di missione priva di missionari.
Ma c’è di più. Fu anzitutto un atto d’amore per la propria terra. Autentico, gridato in silenzio, scritto nel clamore della bellezza rivelata, condiviso con tutti coloro che vollero coglierlo. Forse un tempo con qualche difficoltà, ma oggi alla luce di quanto accaduto, molti ricordano ancora e comprendono che cosa ha portato quel guerriero giaquintesco che Mimmo Paladino volle fermare nei suoi colori.
Un guerriero senza armi, di solo sguardo, uno sguardo di grazia che ancora oggi ci mostra una strada e una scelta. La scelta tra ciò che è permanenza e la dannazione dell’omologato stolido, della esibizione inane, della rappresentazione senza destino, del compiacimento autolesionista. Ed è beninteso quanto di più distante da ogni forma di inconcludente nostalgismo fine a se stesso, non c’è spazio per le giaculatorie incardinate nelle filastrocche del bel tempo passato.
Piccolo mondo morte e sepolto
Niente di più inutile, v’è invece il senso di pietas nei riguardi d’un piccolo mondo dato ormai per morto, o quantomeno seppellito nella indifferenza. Nella urgente rincorsa di quanto c’è ancora da proteggere dalla eruzione di una contemporaneità ignorante. Grazia, amore, bellezza sono a ben vedere le sole risorse di cui oggi, come nel 1993, possiamo disporre. Resistenti con il sorriso di un dipinto. Senza mai dimenticare, per chiudere con Pasolini, come «ormai l’amore per il passato è una sfida al Potere, che vuole disfarsene».
Giacomo Porrino