Valle Caudina: c’era una volta il rito delle “bottiglie”
Prima ancora che i social network si diffondessero, quando le persone si incontravano dal vivo e non cliccavano “mi piace” ma apprezzavano con una pacca sulle spalle; quando un evento “non si condivideva” ma bisognava cercare gli amici per invitarli ad un appuntamento; quando non esistevano le piattaforme news o le pagine bene informate dei giornalisti, ma le notizie arrivavano prima dal barbiere o dalla sarta; quando le battute ti fulminavano al bancone del bar e non ti inchiodavano a ridere sul tuo smartphone; quando non esistevano i video brevi, ma c’era sempre uno zio con la sua fantastica videocamere con vhs; quando le Polaroid erano Instagram e bisognava stare molto attenti perché la pellicola costava un botto; insomma, qualche anno fa anche in Valle Caudina esisteva un rito sociale fondamentale: le bottiglie.
Con la locuzione “fare le bottiglie” si intendeva tutto quel complesso meccanismo che riuniva intere famiglie con annessi amici e conoscenti per produrre una conserva dall’ottimo pomodoro rigorosamente nostrano.
Certo, ancora oggi a Cervinara alcuni tengono fede alla tradizione. Lo fanno, però, in modo più “sbrigativo”, meno coinvolgente e meno sociale. Insomma le famiglie caudine sono diventate più “efficienti” ma hanno oramai seppellito quella che era una tradizione le cui radici affondano nella notte dei tempi.
Fare le bottiglie significava organizzarsi per tempo, coinvolgendo quante più persone possibile. Bisognava mettere in cantiere una produzione che avrebbe dovuto garantire “sugo pronto” fino all’estate successiva. Tutti i membri della famiglia erano coinvolti: dai più anziani, addetti al fuoco dei calderoni con i pomodori da cuocere prima e con i bidoni contenenti i recipienti di vetro da bollire dopo che erano stati riempiti, ai bambini con il compito di riempire bottiglie e barattoli di basilico o di un pomodoro. I ragazzi andavano alla macina, le donne, notoriamente più precisi e pazienti, avevano il compito di riempire le bottiglie con il sugo appena passato.
Il procedimento iniziava la mattina presto (o il pomeriggio verso il tramonto) per durare diverse ore. Ci si attrezzava per tempo: viveri e vettovaglie varie per nutrire tutti i partecipanti. Due elementi non mancavano mai: i peperoni da arrostire sotto il fuoco dei calderoni e dei bidoni e le pannocchie (le “sponze”) da cuocere e l’odore sprigionato era una festa per l’olfatto e i ragazzi non vedevano l’ora di addentare quegli stupendi prodotti.
Le bottiglie andavano fatte con calma contro ogni regola di produzione efficiente (Taylor e Ford avrebbero trovato sicuramente sistemi migliori). Soprattutto esse segnavano la fine dell’estate, l’arrivo dell’autunno e l’inizio della scuola.
In tempi più sbrigativi (i nostri), il sugo si compra al supermercato, la scuola inizia con la pubblicità delle cartelle in televisione e l’estate è accantonata con una foto su Instagram. Sarà pure la “società liquida”, di certo non è quel liquido caldo e gustoso che era il sugo prodotto dai nostri genitori e dai nostri nonni. (foto in evidenza: fonte web)
Angelo Vaccariello