Valle Caudina: la guerra di liberazione dimenticata

Redazione
Valle Caudina: la guerra di liberazione dimenticata

Il padre di un mio amico – scriveva Corrado Ocone in un articolo pubblicato su La Lettura del Corriere della Sera- raccontava che durante la visita di Hitler a Napoli nel 1938 un folto pubblico fu schierato lungo via Caracciolo, in attesa del suo passaggio su una macchina scoperta. Quando il Fuhrer passò in piedi nella macchina e tese il braccio nel saluto nazista, una voce dal pubblico non identificata ruppe il silenzio della cerimonia dicendo: “Sta verenn’ si for’ chiove” (sta controllando se fuori piove). Il padre diceva che in qual momento aveva capito che il totalitarismo non avrebbe mai potuto conquistare l’animo dei napoletani”.
In effetti, non fu il totalitarismo a piegare gli ironici napoletani o, in generale, i campani. Ci pensarono la guerra, la fame, la distruzione, ed il tributo di morte che ogni conflitto si porta dietro.
È opinione degli storici più accreditati che l’Italia meridionale, in generale, non prese parte a quella che è passata alla storia come “resistenza al nazi-fascismo”, giacchè: lo sbarco in Sicilia degli anglo-americani e la loro avanzata fino a Gaeta aveva, di fatto, dispensato le popolazioni meridionali dalla lotta sistematica contro i tedeschi. Non di meno, anche gli abitanti delle nostre terre, e della Valle Caudina in particolare, vittime di episodi di rappresaglia documentati (magari isolati, ma non per questo meno dolorosi), pagarono un prezzo altissimo per quella guerra di liberazione di cui non sapevano niente e di cui, magari, neppure capivano le ragioni.
I ritrovamenti di reperti bellici sui monti del Partenio, ed in particolare a Cervinara, (a Ferrari) ed a San Martino, in contrada Vallicella, sono i segni tangibili del passaggio degli alleati-liberatori da queste parti. Ed in effetti, gli anziani del luogo hanno testimoniato di ricordare che in quelle zone le truppe di occupazione angloamericane, (che, dopo il settembre del 1943, sostarono a lungo in Valle Caudina), avessero seppellitole bombe da mortaio che non avrebbero potuto portarsi dietro, nell’avanzata verso Nord.
In pochi ricordano, però, che proprio San Martino V.C ospitò, nei primi anni del conflitto combattuto a fianco della Germania nazista, un vero e proprio “campo di prigionia” di quelli previsti dalla Convenzione di Ginevra, che consentiva ai paesi belligeranti l’istituzione dell’”internamento”, inteso come provvedimento di guerra nei confronti dei cittadini stranieri nemici presenti sul territorio nazionale. Precisiamo che si trattava del cosiddetto “internamento libero”, destinato in particolare a stranieri costretti a risiedere nel Comune, ma con libertà di movimento nell’ambito del territorio (tre “campi di concentramento” veri e propri furono invece istituiti ad Ariano Irpino, a Monteforte Irpino e a Solofra). Risulta, inoltre, che sia nell’Avellinese che in Valle Caudina, gli internati, sia liberi che coatti, ricevettero un trattamento improntato al rispetto del principi fissati nella Convenzione di Ginevra, ma soprattutto la solidarietà totale delle popolazioni locali, che, -pare,- abbiano sempre avuto una particolare simpatia per i sottoposti ad ingiusta detenzione e per le vittime del regime.
Meno fortunati, invece, furono senz’altro i caudini fatti prigionieri dopo le campagne di Russia e Grecia e deportati nei campi gestiti dai tedeschi. Abbiamo ricordato, in questi giorni, la storia di Alessandro Cioffi, cervinarese sopravvissuto ad Auschwitz, la cui storia è stata narrata da Anna Lisi nel libro “Dove non sorge il sole”, ed insignito con la Medaglia d’onore alla memoria Carmine Martino Raucci di San Martino Valle Caudina, senza dimenticare tanti altri nostri conterranei, che nei campi di sterminio hanno trovato la morte senza neppure aver avuto la possibilità di raccontare al mondo la loro storia, senza che neppure i loro familiari abbiano mai conosciuto con certezza qual sia stato il loro destino.
C’è un’altra storia che vogliamo ricordare, relativa alla triste sorte dei Paolisani, allorquando,   caduto  il   governo  fascista  e incalzando le truppe alleate, un drappello di  tedeschi   in   ritirata si trovò a presidiare il piccolo centro. Pare che i soldati del Reich, nella loro folle opera di distruzione di strade, case e ponti, avessero anche occupato la casa canonica, compiendo atti di indescrivibile ferocia: addirittura- si racconta- giocavano a pallone sevendosi dei teschi dei poveri morti.
Senonchè, nel mese di ottobre del 1943, fu rinvenuto un soldato tedesco ferito alla testa, per la qual cosa fu minacciata una feroce rappresaglia: sarebbero stati fucilati dieci uomini, se non si fosse presentato il colpevole. La paura fa novanta. Ed a qualcuno venne in mente di fare il nome di tal Fortunato Bove,   un pover’ uomo infermo di mente. Dunque, gli invasori, trattenendo gli ostaggi davanti la Chiesa per l’esecuzione,  si recarono a casa del Bove, dove, però, c’era solo il di lui fratello Eugenio, sano di mente e sposato con figli. E quest’innocente fu freddato senza sentir ragioni, senza poter palesare la propria identità, salvando la vita di dieci altri innocenti.
Perché la guerra è questo: è sangue versato inutilmente sulla nostra storia. Anche la memoria è questo: è ricordare la nostra storia sanguinaria per non dimenticarla. Soprattutto, per non ripeterla… (immagine dal web).

Rosaria Ruggiero
gentedistratta.it