Valle Caudina: le pietre mute. Santa Maria al Monte Taburno
Lo scempio dei luoghi del nostro territorio non conosce fine

Valle Caudina: le pietre mute. Santa Maria al Monte Taburno( di Giacomo Porrino). È da qualche anno che cerco di ritrovare un luogo a me sufficientemente caro, uno di quei luoghi che, come diceva Pavese «qualcuno ha nel sangue e nessun altro li sa». Il convento dei domenicani di Santa Maria del Taburno è uno tra questi.
E non lo ritrovo perché da ormai molti anni ne hanno cambiato il volto, come il botulino sul volto di chiunque. Non lo ritrovo ogni volta che raggiungo l’area retrostante del complesso, icasticamente incardinato nella maestà del vallone di Santa Maria.
Un tempo, non so se anche attualmente, meta del pellegrinaggio della cosiddetta «ottava di Pasqua».
Si raggiungeva in semplicità questo luogo e lo si viveva per quello che era, una speciale occasione di incontro con la natura che il Taburno ci bisbiglia da sempre. Ma oggi, e ormai da qualche tempo, questo luogo è diventato altro.
Chi dovesse imbattersi avventiziamente lassù troverà un indicibile e stravagante insieme dentro il quale restare abbacinati da un Cristo fuggito dal Corcovado, da pastorelle – pietrificate oltre che mute – circondate di ovini arcadicamente festanti, da edicole vistose e magniloquenti.
E davvero si fatica a trovare la differenza tra quel che dovrebbe essere un luogo di preghiera o più in generale di bellezza e un parco a tema di imprevisto sapore disneyano. Tra il parco Suoi Seong Land, in Corea del Sud, e il Haw Par Villa a Singapore.
Non vorrei esagerare se di istinto viene di pensare a un dinosauro con occhiali da sole e una t-shirt di Batman. Riflessi involontari nelle aspirazioni del post apocalittico di provincia.
Non a Roma, non a Napoli e neanche a Firenze, ma forse proprio in questo prezioso anfratto del Taburno il buon Stendhal avrebbe potuto notare la prima manifestazione della celebre sindrome psicosomatica che porta il suo nome.
Di fronte a tanta sontuosità, infatti, non è chi non veda come la galleria Borghese o il Kunsthistorisches Museum siano soltanto dei bookshop sgangherati per visitatori che hanno smarrito la strada dei centri commerciali.
Senza contare poi il ruolo determinante degli esperti di procedure medianiche. Evocati e interrogati in proposito, sembra che Michelangelo, Bernini e quel brav’uomo di Canova abbiano manifestato tutto il loro rammarico per non aver avuto l’opportunità di essere gli autori di simili capolavori. Un museo a cielo perso, più che uno a cielo aperto, come usa dirsi.
Qualche trinariciuto vigilante della ortodossia della tutela del patrimonio culturale avrebbe già maniera di veicolare tutta la propria ronchiosa esecrazione vedendo lo stato attuale dei luoghi, gridando stentoreo allo scandalo di un insieme naturalistico e architettonico di grande preziosità ridotto al segno di un giardinetto dal gusto vieto, scagliarsi veemente contro uno scempio perpetrato da bonificare quanto prima.
E invece sbaglierebbe, non di poco. Poiché una evidente e ben manifesta funzione, anzitutto pedagogica, questa vicenda ce l’ha eccome. Un suo involontario e irrefragabile valore. Mostra, per tabulas, tutto quello che non bisognerebbe mai fare in un contesto del genere.
Un caso di scuola per mostrare a tutti precisamente quel che mai a nessuno dovrebbe sfiorare l’idea di fare, e che mai dovrebbe essere munito di alcuna autorizzazione, posto che le istituzioni non abbiano nel frattempo rinunciato al proprio ruolo. Quindi tale vicenda presenta un valore ancora più dirimente, di nitida utilità sociale e culturale. Mica poco, si ammetterà.
L’interno della chiesa nondimeno mostra una medesima tensione lirica, per così dire. E dunque eccoci con improvvisati angeli capoaltare che Lovercraft (che come molti sapranno fu tra i maggiori esponenti della letteratura horror) molto apprezzerebbe, dipinti spuntati magicamente dal nulla di volontà lisergiche, involontari capolavori di una forma involontariamente vernacolare di espressionismo tedesco in salsa caudina, ricostruzioni a dir meno fantasiose di frammenti lapidei che i mattoncini Lego al confronto sono seriosi mosaici pseudo cosmateschi.
E dire che questa chiesa, malgrado tutto, al netto di tutto questo deteriore, presenta dei segni autentici ancora rintracciabili, documenti di uno dei luoghi più significativi della Valle Caudina nel passaggio tra tardo medioevo e rinascimento maturo.
Certo, di ben poco conto, davvero poco rispetto alla incorruttibile magnificenza del nuovo, di questa specifica forma di nuovo che qualcuno ha sentito l’irrinunciabile esigenza di manifestare. Un nuovo, per così chiamarlo, il quale immagino sarà pure vanto di qualcuno nell’inarrestabile delirio egotico che disegna mestamente questi nostri tempi, non stupisca affatto.
Ognuno ne tragga le conclusioni che può, quando e se vorrà capitare da quelle parti aprendo gli occhietti e fuggendo per una volta l’intrigo asfissiante delle distrazioni. Ma una sola cosa c’è da aggiungere, e non può proprio essere taciuta.
Chi legge provi a immaginare quante persone, nel corso degli ultimi anni, mi hanno mostrato e indicato, numerose volte, quello che hanno voluto definire come la devastazione irresponsabile di un luogo prezioso che meritava invece conoscenza e amore.
E tuttavia nessuno di costoro ha mai pensato di manifestare pubblicamente il loro ben privato dissenso, e nessuno di costoro lo farà. Neanche stavolta. Perché peggio del vandalismo, è bene rammentarlo, v’è solo la viltà farisaica degli ipocriti a buon mercato che non trovano la maniera, normale e niente affatto coraggiosa, di farlo sapere.
Anche questo, oltre le pietre rese mute, serve per dire che cosa si è diventati.