Valle Caudina: l’umanità demolita dai colpi di una mazza da baseball
Il 17enne di Vitulano è sempre in condizioni critiche

Valle Caudina: l’umanità demolita dai colpi di una mazza da baseball. Quasi sempre troppo lontane ci appaiono, quando, distrattamente, le ascoltiamo in TV.
Quasi sempre sembrano sfiorarci appena, quando, con altrettanta rapida indolenza, le apprendiamo dai titoli dei giornali.
Quasi sempre sembrano non tangerci affatto, quando, quasi per errore, ce ne sopraggiunge l’eco ovattato, attraverso mass media e notiziari.
Notizie, di quelle che non vorremmo ascoltare mai. Di quelle che saturano i quotidiani di cronaca nera e tingono di rosso i luoghi stessi ove si sono consumate. Di quelle che avrebbero tutti i requisiti per candidarsi all’oscar del teatro degli orrori e che, pur tuttavia, restano reali. Tristemente reali.
E quando esse riguardano i luoghi a noi più prossimi, a noi più cari; quelli che da sempre abitiamo, quelli che ogni giorno frequentiamo; ci rendiamo dolorosamente conto di quanto il male, invece, serpeggi pericolosamente accanto a noi.
Una notizia, quella del pestaggio perpetrata ai danni di un 17enne di Vitulano, avvenuto tra sabato e domenica scorsi , che ha scosso l’intera Valle Caudina, tutti noi indistintamente.
Un’assai macabra vicenda, che avrebbe avuto tutti gli ingredienti – a suon di movida, microcriminalità giovanile ed una mazza da baseball – per somigliare all’incipit d’un film sulle violenze metropolitane, se solo non fosse stata vera. Tragicamente vera.
Una vicenda che ha avuto, sin dal principio, tutto il sapore d’una spedizione punitiva; culminata, alfine, in un episodio di efferata, inaudita violenza. E in una tragedia rimasta, malgrado tutto e a distanza di giorni, ancor oggi incomprensibile. Irrisoluta.
Una tragedia che, pur tuttavia, non costituisce più affatto un caso meramente isolato, men che meno nei luoghi nostrani. Ma che ci riguarda tutti, sconvolgeognuno di noi e tutti ci coinvolge al tempo stesso, nella misura in cui, inevitabilmente, tutti c’induce ad interrogarci.
A porci quei mille “perché”, solo in apparenza destinati a restar tali, insoluti e senza risposta; e i quali affondano invece, a ben vedere, più idraulicamente le radici nel tessuto connettivo d’un sistema – umano e sociale – ormai tristemente alla deriva.
A chiederci dov’è, quand’è che suddetto sistema educativo, culturale, scolastico, familiare e genitoriale insieme abbia fallito.
A chiederci dov’è, quand’è che si sia smarrito quel senso di umanità, civilità e solidarietà dietro le logiche paradossali d’un consorzio umano ormai divenuto sempre più aberrante e senza speranza.
A chiederci dov’è, quand’è che abbiamo eretto una società che ha medicalizzato il disagio; infantilizzato il rischio; promosso una sistematica sterilizzazione dell’esperienza umana. In ogni dove e in ogni tempo.
A
chiederci dov’è, quand’è che abbiamo consentito alla legge della sopraffazione, della prevaricazione; della violenza, fisica e verbale, di dilagare tra le nostre comunità. Tra le nostre strade, non meno che tra le nostre piazze e le aule delle nostre scuole.
Tra i nostri giovani, non meno che tra i nostri cuori. Sino al punto da aver immolato finanche l’innocenza stessa di quella che, tutto sommato, costituirebbe pur sempre un’ancora virginea, verde età, sull’altare del sadismo, della ferocia; dell’emulazione, dell’aspirazione ad una vita da gangster. Tra denaro facile, followers e polveri da sparo.
Perché, quando quella che pur sembrerebbe ormai una di già per sé inaccettabile normalità finisce per riguardare invece finanche i più giovani – i nostri giovani – urge sempre, e inevitabilmente, una riflessione in più. Un interrogativo in più.
Perché forse, a 10, a 15, a 17 come a 20 anni, i giovani dovrebbero nutrirsi d’altro: di quei valori intrisi di umanità, responsabilità, civiltà, rispetto, etica e buon senso insieme, che li renderebbe, un domani, adulti migliori. Uomini migliori. Esseri migliori. Per se stessi e per il mondo che, in un non distante futuro, andranno ad abitare.
Perché forse, a 10, a 15, a 17 come a 20 anni, normalità dovrebbe essere sinonimo di uscir di casa non muniti d’armi. Bensì di zaini, di matite, di libri: di quei sogni nel cassetto ancora tutti da scrivere e colorare.
Di quel senso forte, eppur non prevaricante, della propria identità: del proprio essere, del proprio dovere. E dell’idea stessa che, quand’anche si voglia varcar la soglia impugnando una mazza da baseball, essa serva soltanto a coltivare, con altrettanta passione, dedizione e sacrificio, il culto d’una disciplina atta a formarsi. Di uno sport e dei suoi valori.
Perché forse, a 10, a 15, a 17 come a 20 anni, sarebbe bello se si riuscisse ancora ad insegnar loro la libertà d’esplorare senza ferire; di evadere i confini senza demolire; di fallire in modo costruttivo e non distruttivo. Di forgiare carattere e resilienza attraverso le piccole, grandi sfide d’ogni giorno, anziché tramite un autocompiacente ossequio alla legge del branco. Del “più forte”. O forse, soltanto del più debole.
E perché forse, forse la verità più scomoda da affrontare, malgrado tutto, è che ogni generazione, a partire da educatori e fruitori insieme, debba prima scegliere quale ruolo incarnare. Se accogliere l’identità della vittima e della vera “debolezza”, consistenti nel rifuggire da qualsivoglia responsabilità individuale; o non piuttosto, una doverosa presa di coscienza circa i propri errori e i propri limiti.
Decidere se accettare – e condonare – il comfort dell’infantilizzazione perpetua, tramite la facile, chirurgica rimozione d’ogni ostacolo ad ogni costo; o non piuttosto, abbracciare il dolore, il sacrificio necessari ad una crescita vera, autentica. Sia pur forse faticosa, ma reale.
Esattamente quella stessa, unica crescita in grado di forgiare caratteri forti, ma non violenti. Guerrieri coraggiosi, ma non assassini efferati. Cani da pastore, protesi alla difesa dei più deboli; ma non lupi, di sangue assetati.
Non vittime, non carnefici. Bensì, soltanto menti, cuori e coscienze sufficientemente aperti; in grado di rendere il presente, e con esso il domani, un posto migliore. O forse, soltanto più vivibile, più innocente; più libero, più puro. E, in definitiva, forse più umano, soltanto più umano, in cui poter crescere. E poter vivere.