Valle Caudina: riflessioni dello scrittore Esposito sul suicidio di Montesarchio
Dopo aver appreso dai giornali certe tragiche notizie, ho sentito il bisogno di affrontare quest’argomento, perché penso tocchi tutti noi. Qualche volta, quando ero più giovane e immaturo, nei miei libri ho fatto riflessioni un po’ superficiali e semplicistiche riguardo questo tema. Ma non ho mai smesso di farmi domande. Mi sono sempre chiesto: perché? Perché questo male ci affligge? E non solo gli adulti. Perché ormai persino i bambini piccoli e i ragazzini si tolgono la vita, in quella che dovrebbe essere la loro età più bella? Forse perché dovrebbeesserlo, ma il nostro approccio con il mondo fa sì che non lo sia. La causa può essere attribuita alla diffusione delle reti sociali che, a dispetto del loro nome, ci isolano sempre di più? Sicuramente ha contribuito a peggiorare le cose: i nostri “amici” di Facebook ci liquidano con un pollice in su o con un “visualizzato” senza rispondere. E paradossalmente, quando vogliamo parlare con loro dal vivo, non ci rispondono perché sono “connessi” a internet, chini sullo Smartphone, e disconnessi dal mondo circostante.
Ma questo malessere esisteva già prima dei social, prima dell’Era di Internet. Tra le mille pratiche burocratiche,tra i corsi di formazione (a pagamento) e i continui rinnovi (a pagamento), gli studi, l’università, la scuola dell’obbligo, il lavoro o la ricerca del lavoro cui ci costringe l’economia, non abbiamo più tempo né voglia di ascoltare i problemi degli altri. In questa vita frenetica che ci vuole sempre produttivi edove, se non ce la facciamo, la società ci fa credere di essere “sbagliati”, instillando il senso di colpa nell’individuo che non si adegua. Questa vita frenetica (e contemporaneamente vuota) che non ci dà nemmeno il tempo di pensare a noi stessi, figuriamoci agli altri. E allora, avendo perso la capacità di immedesimarci negli altri, deleghiamo agli specialisti, ai “medici della mente”, che oltre a spillarci soldi potrebbero diagnosticarci qualche malattia inesistente, peggiorando la nostra situazione, e per quanto possano essere bravi, sono pur sempre persone che non ci conoscono. E il massimo che sappiamo fare è appunto consigliare a qualcuno un bravo specialista anziché stargli vicino. Scappiamo, invece, da coloro che soffrono, ci scherziamo su, li etichettiamo come persone negative da allontanare perché non vogliamo che ci trasmettano il loro malessere, dimenticandoci quando siamo noi stessi a cercare qualcuno con cui confidarci e a lamentarci se non lo troviamo. E allora noi tutti ci isoliamo, perché è ritenuto poco decoroso (poco virile se sei un uomo) e da deboli piangere quando si soffre. Non vogliamo trasmettere la nostra negatività agli altri, che ironizzano: “se fosse per te, dovremmo solo suicidarci!”, oppure inveiscono “se non ti piace questo mondo, perché non ti ammazzi?”. E dimenticano la gravità della situazione, dimenticano (o ignorano) quanti suicidi ci sono al giorno nel mondo. Dimenticano quante notti e quanti giorni, noi tutti – anche i più forti – abbiamo trascorso a piangere di nascosto, da soli, a meditare di farla finita perché sembrava l’unica strada possibile. E i pregiudizi di chi ci vuole tutti omologati, di chi crede che la sua morale sia l’unica, vera e giusta e discrimina chi vorrebbe vivere diversamente, liberamente.
Ci si toglie la vita, se si perde il lavoro o se non lo si trova; se non ci piace lavorare e se non lo sopportiamo; se non riusciamo a laurearci; ci si toglie la vita per un brutto voto a scuola; per un esame non superato e la paura di deludere i genitori; ci si toglie la vita per un litigio con la nostra compagna;per una delusione d’amore;per i debiti che il mondo dell’economia ci condiziona a crearci (e non solo a quella attuale, ma l’economia in quanto tale che ci sta letteralmente uccidendo). Chi si toglie la vita, però, non è perché la disprezza, ma perché ha una disperata voglia di vivere e qualcosa glielo impedisce (e quel qualcosa è la società).
La vita dovrebbe essere libera e gioiosa – certo con tutte le difficoltà che esistono in natura, ma difficoltà risolvibili-, non un continuo stress. Non dovrebbe esserecostituita da questa frenesia per colpa della quale, con le nostre auto, investiamo animali, bambini e individui in generale o ci schiantiamo noi stessi, magari ubriachi e strafatti, o magari stressati dal lavoro e da questo stile di vita(perché ogni ingranaggio è collegato in questa grande macchina infernale).
Non dimenticherò mai quando, affermando che i giovani dovrebbero essere liberi e spensierati, uno di quei “vecchi saggi” che hanno accettato la società così com’è, mi rispose accigliato “che cazzata”.
Come se non fosse vero che lo stress e i mille obblighi ci stannorealmenteuccidendo.
Non ci capiscono i nostri genitori -per quanto abbiano buone intenzioni – che hanno accettato, rassegnati, questo mondo senza gioia, e vorrebbero soltanto che ci adeguassimo.E allora con chi possiamo parlare? Con nessuno. Ci chiudiamo in noi stessi e smettiamo di confidarci, perché in questo mondo chi non si adegua è considerato debole (anziché il contrario), e sappiamo soltanto dirgli che così è la vita e che deve essere forte, come se la sua forza dipendesse dalla sua volontà. Ci teniamo la sofferenza per noi stessi. Fuggiamo dalla realtà, rifugiandoci in fiumi di alcolici, assumendo droghe e psicofarmaci; cerchiamo qualche diversivo per sopportare questo mondo che diventa sempre più insopportabile. E neanche quando ci si aggrappa all’arte o alla religione, questi palliativi funzionano sempre o durano a lungo. Perché ciò che ci manca davvero è la libertà, la vita in contatto con la natura, dalla quale l’essere umano è ormai separato da millenni, ci mancano le relazioni vere con le persone. E anziché cercare di riprenderci la vita, fuggiamo dalla libertà – per citare un famoso libro dello psicologo Erich Fromm- la sola cosa che può salvarci. E il problema di certo non riguarda soltanto la Valle Caudina e il Sannio, né solo il Sud o solo il Nord, il problema non riguarda solo l’Italia o l’Europa, o solo gli Stati Uniti, o solo il Giappone; il problema riguarda tutto il mondo civilizzato, ovvero il mondo in cattività, il mondo pieno di obblighi e senza libertà.
Eppure, nonostante questo, io non perdo la speranza: vedo ancora in alcune persone la voglia di aiutare gli altri senza volere nulla in cambio, perché il mutuo appoggio è nella natura umana, per quanto il sistema cerchi di distruggerlo o di farci credere che siamo cattivi e menefreghisti per natura; per quanto l’economia ci educhi allo scambio e alla competizione. Vedo ancora nella gente – fosse anche una minoranza – quella voglia di lottare, di liberarsi, di riprendersi la propria vita. Perché è questo che dobbiamo fare: riprenderci le nostre vite e riacquisire la capacità di ascoltare gli altri. Da quando so di aver sempre avuto ragione riguardo questo mondo sbagliato, da quando so che il problema non è l’individuo che non si adegua, ma la società che ci vuole tutti adeguati – anche a scapito della nostra vita e della nostra salute – io ho scelto di vivere e di lottare per la vita. Ma non dobbiamo far finta di nulla, non dobbiamo coprirci gli occhi. Dobbiamo chiederci che cosa c’è che non va nel mondo, senza aver paura delle risposte. Non dobbiamo aver paura di mettere in discussione la società. Non dobbiamo aver paura di pensare che questa realtà sia ingiusta quando non la sopportiamo. Soltanto così, cominciando a criticarla, possiamo iniziare a cambiare le cose in meglio.
Domenico J. Esposito