Valle Caudina: V=Sb·h/3 di Giacomo Porrino

Senzazionale scoperta in Valle Caudina

Redazione
Valle Caudina: V=Sb·h/3 di Giacomo Porrino

Valle Caudina: V=Sb·h/3 di Giacomo Porrino. Già si annuncia come la scoperta più sensazionale degli ultimi anni. La stampa specializzata ha iniziato a occuparsene con la circospezione che il caso richiede mentre le istituzioni internazionali hanno nel frattempo allestito programmi di approfondimento e di ricerca.

Missione congiunta

Qualcuno assicura di aver visto in zona tecnici dell’EASA e della NASA in missione congiunta. Il fatto è che è stata rinvenuta una piramide in Valle Caudina, precisamente a Moiano. E sono molto lieto di condividere con i lettori questa mia fotografia del ritrovamento, la prima in assoluto a essere presentata in pubblico.

Si nota nitidamente l’asse perfettamente allineato con l’altra piramide che si intravede alle sue spalle, quella del Porrito. Quest’ultima nota da tempo e peraltro prontamente georeferenziata nei sistemi cartografici più diffusi.

Della piramide risultano attestate importanti testimonianze nelle fonti dell’antichità. Ne accenna Strabone in uno dei suoi diciassette libri della Geografia sul finire del I secolo a. C. Così come Grazio Falisco, nel Cynegeticon, la riferisce in saxa Taburni. Virgilio, Orazio e Mecenate, in cammino nel 37 d. C. verso la mansio di Coccejo, certamente la scorgono.

Il primo addirittura la ricorda nelle Georgiche, scritte peraltro in quello stesso anno. E se per il mantovano il Taburno doveva essere popolato di ulivi e piramidi, non poteva certo mancare l’appuntamento con l’egittologia caudina, il buon Vibio Sequestre.

L’autore del De fluminibus fontibus lacubus nemoribus paludibus montibus gentibus per litteras libellus, del V secolo, puntualmente registra la presenza della ritrovata piramide moianese. La tradizione francescana suggerisce poi la presenza del santo al cospetto della struttura, e sembra che questi sia riuscito addirittura a donarle la parola. Non è dato sapere se in ieratico antico oppure in demotico. Più tardi, anche Philipp Clüver, il grande autore delle rivelazioni geografiche che aprono l’età moderna, annota la nostra piramide nel suo Italia antiqua, pubblicato postumo nel 1624.

Il codice binario

Quasi sepolta dalla vegetazione e ridotta in cattivo stato. I più attenti hanno invece scorto nella notazione musicale del celebre frammento di Antidotum Tarantulae, riportato nel Magnes, sive de arte magnetica, del sulfureo Kircher nel 1641, un codice binario che secondo fonti bene informate rivelerebbe la presenza della piramide.

Anche in forma coreutica. E in questo modo si giunge fino a Garibaldi, che fa interrare ciò che resta della struttura quando a capo di un drappello di camice rosse lo confonde fatalmente per un oscuro richiamo borbonico. Nel dubbio meglio non rischiare, dopodiché al galoppo verso Benevento. Non prima di farsi senz’altro nominare dittatore della Valle Caudina.

Negli ultimi anni, tocca dirlo, si è sviluppata una copiosa attenzione al tema da parte di entusiasti cercatori di allineamenti più o meno astronomici con la costellazione di Orione. Senza la quale, beninteso, non è data una piramide che meriti una qualche considerazione.

E dunque spesso è accaduto di incespicare lungo il cammino di queste teorie di singolari smanacciatori di ossigeno. Che sono il frutto di curiose sperimentazioni genetiche le quali, in questo caso, hanno portato alla simpatica mescolanza tra le figure grottesche delle strisce di Robert Crumb e i dieci piccoli indiani di Agata Christie. Dieci piccoli orioni, più correttamente.

Secondo costoro tutto è molto chiaro, rivelato, nitido. Rigettano con sdegno ogni eventuale argomentazione contraria, sia pur espressa con garbo e qualche sorriso. Le piramidi, perché tali sono, si trovano lì per una vocazione che vorrei quasi dire ontologica, un disegno che dovrebbe riportare un giorno da queste parti nientemeno che gli antichi alieni. In buona sostanza, ci dicono che le amministrazioni locali non stanno entusiasmando, e che quindi si rende necessario l’intervento dei signori con il disco volante. Mica capperi.

Il capezzale dell’intelligenza

Inoltre, questi apostoli dell’intelletto retroverso trovano talvolta piena gratificazione nientemeno che dalla televisione. Sempre pronta ad accorrere al capezzale della intelligenza. Per un ultimo gesto di pietà, s’intende. Trasmissioni televisive di indiscussa autorevolezza scientifica, salutate al tempo anche da molti caudini come una vera conquista di civiltà. Mica capperi.

Tutto suggestivo, senza dubbio. Molto suggestivo ma non autentico, poiché chiaramente di tutto quanto ho scritto prima è vero l’esatto contrario. Non esiste una piramide rinvenuta a Moiano, non esiste una piramide chiamata Porrito, non esistono le piramidi in Valle Caudina.

Esistono invece gli autori citati, esistono i titoli riportati ma in alcun modo parlano di piramidi caudine o beneventane. Perché non sono mai esistite. Non esistono costruzioni gigantesche in forma di piramide camuffate da cumuli di terra, vegetazione e uliveti dove condurre i residui armenti ancora presenti in zona.

E già solo questo sarebbe stato sufficiente per intuire come in realtà quelle che un nugolo di renitenti all’intelletto cocciutamente insiste nel volerle immaginare come piramidi, siano in realtà forme ereditate dalla storia tettonica della terra su cui camminiamo.

Forme geometriche elementari

Forme che talvolta possono colpire per la nettezza con cui ci conducono al riconoscimento di forme geometriche elementari, certamente accattivanti. Ma il problema è tutto percettivo, siamo noi a renderci inabili alla comprensione elaborando quelle forme come una sorta di manufatto, legate a una imprecisata volontà, inducendo il riflesso successivo che porta a negare la involontarietà di queste forme naturali.

Seppelliti come siamo da schematismi e pregiudizi, ci arroghiamo l’arbitrio di informare la realtà con le nostre fanfaluche. Perché semplicemente sono accessibili con facilità, sono alla portata di tutti. Merce che si vende assai facilmente. Ma chiodi arrugginiti sul cofano della conoscenza.

E così questi cercatori di piramidi un tanto al chilo, agrimensori dell’involontariamente ilare, solerti inseguitori di Orione tanto piccini e tuttavia tanto orioni, si barricano pertinaci nella loro ignoranza non rendendosi disponibili ad abbandonare le loro desolanti fantasticherie.

Ora, se si volesse condurre un rapido esperimento, sarebbe interessante capire quanti, fermandosi alla prima parte di questo scritto, si saranno fermati poiché corroborati nella loro speranza annunciando al mondo la notizia che mancava.

Tranello semantico

Oppure gli altri che, avendo creduto parimenti, ma avendo proseguito la lettura con più pazienza, si saranno accorti del piccolo tranello semantico vantandosi di averlo senza dubbio capito subito. Ipotizzo che costoro stanno il gruppo più numeroso.

Infine il terzo, di quelli cioè che invece avranno inteso subito il senso di queste parole. Avendo a disposizione un corredo di strumenti culturali e percettivi come una buona civiltà dovrebbe auspicare per ognuno di noi.

E tornando alla piramide, a questo punto ci si dovrebbe chiedere di che cosa si tratti. Perché di una piramide si tratta, a ben vedere. Ma si tratta in realtà della cuspide piramidale del tredicesimo torrino dell’acquedotto carolino, ridotto nello stato in cui si vede.

Ed è talmente evidente il suo stato di depauperamento da renderlo percepibile finanche a tutti quegli inagibili del pensiero che per un anno intero che da ogni parte del sistema solare hanno disseminato coriandoli sulla nostra pazienza cianciando del povero Vanvitelli e del suo acquedotto, di cui peraltro non conoscono una sola pietra. E fin qui niente di nuovo, si dirà.

Ma qualcosa si deve pur dire di quelle istituzioni che invece sarebbero preposte alla tutela di un simile monumento, istituzioni che devono per i compiti loro assegnati programmare e prevedere azioni di custodia e conservazione realmente efficaci. Che non sono certo le passerelle corredate da inutili e insulse photo opportunities con amministratori locali e locali associazioni, tutti ansiosi di esibire tutto, tranne il poco che servirebbe.

La conoscenza che arriva dallo studio

Perché non dovrebbe risultare eccessivamente complicato capire che una preesistenza storica, quale che essa sia, è possibile tutelarla solo se la si ama. E la si ama solo se la si conosce. E la si conosce solo e soltanto se la si studia.

Non esiste alternativa a questo processo. La scorciatoia pseudo spettacolare non porta a niente. Mascherate, adunate, passeggiate, abbuffate fuori porta, premiazioni, palcoscenici, targhe e targhette, frizzi e lazzi gratificano la grama transitorietà chi ne prende parte ma non certo la storia.

La quale da centro della azione volta a trovare ogni via percorribile al fine di conoscerla, diviene solo un ributtante pretesto per altro. Non esiste quindi una reale attenzione a un nome dimenticato o sconosciuto, un gesto antico, un muro in tufo, un lacerto di memoria, un canto melismatico, ogni possibile frammento di autenticità identitaria, posto che in qualche misura ancora interessi qualcuno. Ho già scritto in precedenza circa queste derive desolanti, non è il caso di dilungarsi ulteriormente.

Del resto Gramsci, nei suoi scritti dal carcere tra il 1929 e il 1935, annotava che «se si domanda a Tizio, che non ha mai studiato il cinese e conosce bene solo il dialetto della sua provincia, di tradurre un brano di cinese, egli molto ragionevolmente si meraviglierà, prenderà la domanda in ischerzo e, se si insiste, crederà di essere canzonato, si offenderà e farà ai pugni.

Eppure lo stesso Tizio, senza essere neanche sollecitato, si crederà autorizzato a parlare di tutta una serie di quistioni che conosce quanto il cinese, di cui ignora il linguaggio tecnico, la posizione storica, la connessione con altre quistioni, talvolta gli stessi elementi fondamentali distintivi.

Il peggio che stiamo facendo

Del cinese almeno sa che è una lingua di un determinato popolo che abita in un determinato punto del globo: di queste quistioni ignora la topografia ideale e i confini che le limitano». Ecco, non c’è molto altro da aggiungere, tranne il fatto per cui oggi siamo riusciti a peggiorare sensibilmente il problema. Ma almeno questo per sua magra fortuna, Gramsci, se l’è risparmiato. Noi no.

Giacomo Porrino