Estasi e tormento: “La bellezza della vita che sboccia e l’emozione di un nuovo inizio: l’ultimo fiore di Van Gogh”
Estasi e tormento: “La bellezza della vita che sboccia e l’emozione di un nuovo inizio: l’ultimo fiore di Van Gogh” Si dice spesso degli alberi, quando le loro radici sono evidenti e sporgono dal terreno, che essi saranno pericolanti e pronti a cedere.
L’ultima tela
L’ultima tela che la geniale mano di Van Gogh dipinse, contrariamente al luogo comune che vede in “Campo di grano con volo di corvi” il suo ultimo dipinto, si intitolava “Radici”: serpeggianti, azzurre, intricate, come i sottoboschi di Auvers che lo ispirarono. Inestricabili, aggrovigliate, tortuose, come le pieghe dell’animo che lo condussero fatalmente, quel giorno stesso, quel 29 Luglio 1890, al suicidio.
Insondabili, labirintiche, crude, come ruderi d’angoscia che lasciano solchi profondi sui sentieri dell’anima. E fu preso in giro, Van Gogh, per quei grovigli dell’anima sua; fu preso in giro, Van Gogh, almeno secondo l’interpretazione del regista Schnabel, per quelle “radici” sue, finanche dagli scolaretti che passeggiavano lì di fianco accompagnati dalla maestra, vedendo quanto stilizzate, disancorate al suolo, e per questo orribili, esse fossero.
Eppure, Van Gogh, tra i suoi molteplici rovi di spine e le sue frustate di colore, dipinse anche tanti straordinari soggetti floreali e meravigliose nature morte. Tra questi, in particolare, tanti mandorli in fiore: il fiore che annuncia sempre la propria rinascita in anticipo rispetto alla primavera.
Il 31 gennaio 1890, Theo Van Gogh, fratello di Vincent, e sua moglie Johanna Bonger diventano genitori: il loro piccolo si chiamerà Vincent Willem, in omaggio a colui che sarà designato come suo padrino. Perché, pur nella solitudine, nell’alienazione, nel disagio, Vincent nutre una sola certezza: suo fratello Theo. Ad unirli, non solo un legame di sangue, ma altresì una sensibilità comune, la capacità di comprendersi e stimarsi reciprocamente, sia pur in mezzo alle difficoltà.
Dipinti come espressione del pensiero
Commozione, gratitudine, riconoscenza: Vincent vuole ripagare il fratello per aver battezzato il figlioletto col proprio nome, e lo fa nell’unico modo in cui ritiene capace di esprimersi: dipingendo. Perché per Vincent, i dipinti sono espressione del pensiero, delle emozioni, dell’anima.
All’epoca, Vincent abita in Provenza, a Saint Rémy e, secondo i racconti autobiografici, durante una visita allo studio del dottor Gachet, scorge dalla finestra della struttura, in giardino, un mandorlo in fiore. Ebbene, quel mandorlo lo colpisce, lo rapisce profondamente. Perché in quel ramo, in quei boccioli, in quella fioritura, i suoi sensi percepiscono la materialità, ma la sua anima recepisce, al contrario, l’aspirazione all’infinito, l’emozione di un nuovo inizio. L’eco di una promessa.
Decide, pertanto, di coglierne uno: un solo ramo, che custodisce gelosamente durante il tragitto per tornare a casa, nella tasca del suo cappottino di lana, proteggendolo con una mano affinché neanche un petalo si disperdesse. A casa propria, lo conserva, lo accudisce, lo custodisce, esattamente come una reliquia, fino a che, pochi mesi dopo, quel “ramo di mandorlo in fiore” non diventa un olio su tela: Vincent vi lavora infatti instancabilmente, giorno e notte, cercando di rendere eterna quella bellezza; disegna, ridisegna, prova e riprova, rifinisce, fino a dar vita proprio a quella straordinaria “tela azzurro cielo”, come la descrive in una lettera alla madre del 15 febbraio.
La semplicità che diventa universale
Un soggetto di apparente, disarmante semplicità, la stessa in cui è racchiusa, tuttavia, la sua grandezza: una grandezza che non risiede nella complicazione, nell’ostentazione, nel virtuosismo baroccheggiante della sovrabbondanza e del colore, bensì nella capacità di far emergere dalla semplicità il più puro dei sentimenti; di colpire e di emozionare chi guarda da lontano anche solo attraverso un unico, semplice ramo fiorito.
I colori caldi, ottenuti quasi a mo’ di pastello; l’azzurro cielo e i fiori di un bianco candore; il ramo che timido, ma solido, si protende verso l’alto, quasi ad elemosinare un raggio di sole e a restituirne, in cambio, un senso di speranza, di inizio, di nuova vita; la natura che dà quiete, che porta con sé serenità, fiducia, futuro. Ecco: in questo, in tutto questo, si condensano la genialità, la delicatezza, la dolcezza e la tenerezza capaci di fare del suicida per antonomasia un uomo, e di uno degli artisti più esecrati del suo tempo, uno fra i più amati dei nostri giorni.
E c’è, pur tuttavia, un ma: in taluni punti, il ramo di mandorlo appare ancora appena abbozzato, incompleto, non finito. Vincent ha iniziato con entusiasmo l’opera, esperendo un momento di pace e di serenità del suo animo dovute alla nascita del nipote e alla dolce dedica del fratello, ma i suoi demoni non sono ancora scomparsi: essi sono ancora lì, esistenti, ad impedirgli di rifinire l’opera, e quasi a voler dare un segno tangibile della loro presenza, ancora viva e pulsante. Sino a quel giorno fatale, che pochi mesi dopo segnerà il suo tragico destino.
Un simbolo di speranza
Eppure, frattanto, nulla ha potuto cancellare quel frangente di felicità, di gioia: quel ramo fiorito simbolo di speranza, di un uomo costantemente in rivolta contro se stesso che, pur tuttavia, grazie all’amore più disinteressato, puro e totalmente gratuito, ha potuto guardare con fiducia e con nuovi occhi al futuro, sia pur solo per una volta. Sia pur solo per l’istante fugace, brevissimo, effimero e altrettanto fragile, di un fiore.
Un istante, una parentesi di felicità, meritevoli, proprio per questo, di essere eternati sulla tela, in quanto esenti da ogni dolore. Perché Van Gogh è pittore non per vocazione, non per passione, bensì per disperazione. Ogni suo segno, ogni suo tratto, ogni sua punta di pennello è un colpo al cuore: un grido dell’anima, un gesto con cui affrontare la realtà.
Quella realtà che è per lui turbamento, tormento, inquietudine continua, un limite di cui soffre e di cui non può, non riesce a liberarsi; a meno di non afferrarla, di farla propria, imprimendola sulla tela e identificandola, per ciò stesso, con quella passione per la vita di cui, alla fine, si muore. Ecco perché la sua è una pittura vera fino all’assurdo; viva fino al parossismo, al delirio. Alla morte.
Perché è tragico: è tragico vedere la realtà e vedersi nella realtà con così lucida, perentoria evidenza.
È tragico riconoscere il nostro limite nel limite delle cose, e non potersene liberare. È tragico, di fronte alla realtà, non poterla contemplare, ma dover fare, e fare per forza, con passione e con furia. Bisogna perciò lottare, insistere, per impedire che la sua esistenza sopraffaccia e distrugga la nostra. E dell’arte, dell’arte medesima fare quel “mestiere del vivere” che Van Gogh stesso, tenacemente, disperatamente contrapponeva a tutto ciò che, invece, vita non è.
La foto di Cavasenna
E a proposito di vita, di rinascite, di fioriture, di arte… Nulla mi restituisce un senso di compiuta libertà, di avvenuta rinascita, quanto questa suggestiva rappresentazione fotografica – quasi una moderna reinterpretazione dei dipinti di Van Gogh – di un mandorlo fiorito nella Valle dei Templi di Agrigento, filtrato attraverso l’obiettivo di Cavasenna nel suo momento di massima fioritura, mentre, tutt’intorno ancora, la natura soggiace all’inverno e alla maestosa ombra dei marmi.
Quasi come se, pur in mezzo alla solenne gravità della polvere, fosse pur sempre possibile, con indefessa ostinazione, l’anelito alla vita, che mai soccombe, ma suggella, al contrario, l’inizio di ogni primavera, di ogni rinascita. Spontanea, incommensurabile, pura. Esattamente come un ramo di mandorlo. Un ramo di mandorlo in fiore.