Estasi e tormento: lo specchio dell’anima. Meraviglia. Stupore. Pura contemplazione estetica. Viceversa, angoscia. Oppressione. L’urgenza, l’incedere del tempo col suo passo impietoso.

Emozioni differenti

Incredibile come uno stesso dipinto, di per sé enigmatico e suggestivo, possa evocare emozioni e stati d’animo differenti, a seconda di quale sia la prospettiva di chi guarda. Del resto, in ciò consiste tutta la magia, l’illusione, nonché il dolce inganno, dell’Arte stessa.
E nella poliedricità dei punti di vista, così come nella pluralità delle emozioni che essa suscita, si esplica il suo fascinoso artificio.
Ben lo sapevano i pittori cubisti, forse tra i più rivoluzionari, innovativi Avanguardisti che il Novecento abbia conosciuto.
Solare e lunare insieme. Di blu e di giallo espansa. Due ritratti. Due parti asimmetriche riflesse in uno specchio. Due donne diverse.  Eppure, solo una. Volto solare su un corpo spigoloso, di profilo.
Viceversa, volto ombroso su un corpo luminoso, curvilineo.Volto malinconico, blu indaco spento, ora immerso nella solarità piena del giallo e del bianco. È la vitalità, la freschezza di Marie-Therèse Walter, musa ed amante del più osannato pittore cubista di tutti i tempi: Pablo Picasso.
Quarantacinquenne lui, appena diciassettenne lei, all’epoca di “Ragazza davanti allo specchio”, nel 1932, Picasso nasconde la sua amante al mondo tra le trame cubiste di quello che diventerà uno dei suoi più celebri dipinti.

Volto incupito

Da un lato, i contorni tondeggianti e sinuosi, la continuità delle linee, la pienezza delle forme volumetriche d’ispirazione surrealista.
Dall’altro, il volto di profilo che s’incupisce. S’inabissa. Si inarca. Si eclissa, entro la cornice di uno specchio adombrato, serrato in neri contorni. Nonché opprimente, minaccioso presagio di un cupo a-venire.
Un avvenire destinato a tradursi drammaticamente in realtà in quell’estate fatale del 1977, segnata dal tragico suicidio della modella francese. Del resto, era una di quelle relazioni iniziata in segreto, quella tra Marie-Therese e l’artista, ancora sposato con la ballerina russa Ol’ga Khochlova, dalla quale mai si sarebbe separato. E che, come tale, non avrebbe potuto che volgere nel suo più triste epilogo.
Eppure, in quel dipinto, la donna che Picasso sceglie di rappresentare è quella che veramente ama, Marie-Therese, offrendo addirittura due differenti versioni della stessa.Al di qua dello specchio, colei che egli vede, la donna che egli che ama. Duplice, ma reale.
Di contro, il riflesso restituito dalla superficie vitrea altro non è che la terra visione che ella ha, invece, di se stessa. Infelice. Impaurita. Invecchiata. Prossima ad una maturità di fronte alla quale ci si scopre impreparati, e il cui destino sembra irrimediabilmente già segnato.
Già prescritto, prestabilito, come per ogni donna dell’epoca: vivere, amare. Procreare, morire. E allora, nel dipinto tutto appare disgregato, così come disintegrato e in frantumi è l’essere di quella donna. Disgregato è il tempo.
Disgregato è il volto di Marie-Therese. Disgregato è finanche il modo con cui ella percepisce se stessa rispetto alla visione che l’artista stesso ha di lei. Frammenti di realtà, di immaginazione, o forse d’incubo, si combinano e si confondono tra di loro, tanto che passioni diametralmente opposte combattono, si scontrano, sino a coinvolgere e non lasciare indifferente l’osservatore stesso.
Disgiunzione. Rottura. Incastro asimmetrico tra due figure pur tuttavia in stretto contatto tra di loro. L’una il riflesso dell’altra, seppur in una non-coincidenza esatta mai. Uno scollamento, una separazione, che ribadisce tutto il lavoro di disintegrazione della realtà; oppure, al contrario, di adesione ad una sua più profonda somiglianza, secondo l’ottica tipica della pittura picassiana.

Giochi di specchi

Mi hanno sempre affascinata i dipinti incentrati su giochi di specchi, di sdoppiamenti. Ombre e riflessi, dai quali, sovente, è impossibile sfuggire. E dai quali non si può che trarre, inevitabilmente, la medesima conclusione: ogni uomo nasce gemello. Colui che è e colui che crede di essere. E pur tuttavia, non sempre si tratta di un’identità felice. Non sempre si perviene alla conoscenza di sé percorrendo una via lineare, facile e serena.
Per alcuni, il percorso è accidentato, né può prescindere da una doverosa, dolorosa anabasi dentro se stessi. Una discesa agli Inferi, un triste calvario, che a volte richiede tutto, senza restituire nulla in cambio.E lo specchio, lo specchio diventa a sua volta simbolo e strumento diabolico.
Restituisce non l’immagine presente, bensì lo spettro del passato. O ancora, del futuro. Un impietoso passatempo, un lapidario monito sulla caducità della bellezza. Della vita. Dell’amore.
Di fronte allo specchio, in quel dialogo muto col proprio riflesso, si cerca affannosamente se stessi, la conferma di qualcosa che si percepisce emotivamente, ma che talvolta sfugge.Una cornice dorata, in cui l’ego trionfa, si realizza. O all’opposto, si nega. Si mortifica.
Mi viene in mente altresì Pirandello, per il quale lo specchio è raggelante.È raggelante non solo perché, nel mostrarcele, evidenzia la vanità delle nostre azioni, facendoci vedere nel vivo di una passione o di un sentimento, quella passione e quel sentimento dal di fuori, come in un’oggettività che raffredda e inibisce la spontaneità.
Ma altresì perché, per Pirandello, il sentimento che ci tiene in vita crea costantemente delle illusioni. E non si può credere a tali illusioni se esse ci vengono mostrate nella loro cruda realtà, nella loro fredda oggettività. Esattamente come fa uno specchio.
È raggelante perché, sovente, accanto al dolore dell’incomunicabilità reale, esiste quello, fors’anche più forte, della nostalgia, dell’illusione stessa.

Nostalgia sognante

La nostalgia sognante per qualcosa che mai è avvenuto, che non esiste nel tempo presente e che, probabilmente, mai sarà dato di provare.
E poco importa che a nutrirci sia un inganno da e per noi stessi creato. La pervasività di un’illusione, talvolta, è innegabilmente più tollerabile e assolvibile di una solitudine vile ed egoista, indolente alla penosa responsabilità nei confronti del reale, pur continuando a sorridere ad una carestia divenuta ormai insostenibile per anima e corpo.
Ed è così che, nell’algida desolazione della nostra solitudine, seduti fra livide cime di speranze marcite e primavere mai giunte, ci abbandoniamo al sogno. Al miraggio spento, eppure inebriante, di un volto che accarezzi il nostro bisogno d’amore. Che accolga proprio la nostra preghiera di calore. Che guarisca proprio la nostra ferita.
La forza dell’illusione è tanto forte che le membra ne rifulgono appena, e ci sfugge una mano al cuore, come a voler accertare il miracolo di un suo palpito. Ed è altresì forte da spingerci, talvolta, a porre la maschera dell’amore sul primo e più rozzo dei volti, fosse anche il più inviso a noi stessi.
Ma cos’è del resto l’amore, se non, sovente, un riflesso, una maschera, un’ illusione, una bugia, un sogno? Cosa del resto la vita?
“Siamo fatti della stessa sostanza di cui sono fatti i sogni, e la nostra breve vita è tutta conclusa nel giro d’un sonno”, recita il Prospero de “La tempesta” di Shakespeare (atto IV, scena I).
“È come un essere crudele che dà la vita per toglierla, e quel poco che dà, lo carica di pene e sofferenze”, direbbe ancora il Sigismondo de “La vita è sogno”, di Pedro Calderòn de La Barca (1635).
È l’abbraccio tanto agognato e sempre mancato. L’abbraccio tanto desiderato da illustrarlo mentalmente, come se lo avessimo realmente vissuto. Ecco il genio, il surrealismo di Picasso. Ma con la medesima sensibilità che gli ha consentito di percepire la nostra pena, ecco che il genio spagnolo del Cubismo ci sottrae fatalmente al suo appoggio. Al fragile conforto della sua visione.
Ed ecco che, come fanciulli, ci destiamo così, nuovamente soli, nella nostra alcova di paure. Soli di una solitudine irreparabile.
La solitudine di un’umanità ancora oggi separata da vetri bianchi, da specchi, maschere e muri.La solitudine di chi è incapace di empatia.
La solitudine di chi, guardandosi allo specchio, non sa chi o cosa vuole essere.La solitudine di chi, pur volendo con ogni parte di sé, non sa consentirsi alcun vero legame. Neanche con se stesso, condannato com’è, inesorabilmente, ad intuirsi solo attraverso le crepe della tristezza, della disperazione o della noia. Oppure, al contrario, attraverso le trame dell’amore, sia pur incommensurabile, che qualcun altro prova per lui.

Senza gioghi

Sempre, costantemente a metà. Sospesi a mezz’aria. Ancipiti.Come due lati di uno specchio.Come due parti di ognuno di noi.
L’una forte, integra, risoluta. Quella che mira costantemente alla luna, aspirando all’impossibile. Quella che non conosce fatica, né limiti, né timore della solitudine.
Mossa dalla passione. Spinta dal desiderio. Ispirata dalla conoscenza. Diretta verso la propria meta. Incurante dell’altrui giudizio. Senza gioghi che possano imbrigliarla. L’altra, invece, come la pioggia d’autunno: quella che profuma ancora d’estate, ma fa già presentire l’inverno. L’alberga la mancanza. La nutre la malinconia. La scava l’ombra. Dal cuore non a pezzi, ma gonfio di tristezza da esplodere.
Ci lascia sgomenti, di volta in volta, questa dimidiazione, questa duplicità in noi stessi, nell’attesa di scegliere quale delle due parti ci somigli di più. Ed è forse per questo che chi ci cammina accanto resta pazientemente in attesa di scorgere un sorriso sul volto di entrambe. E di riconoscerci di nuovo uni. Di nuovo interi.

Finalmente noi stessi

E per la prima volta, noi stessi. Finalmente noi stessi. Quasi a conferma che, se si riesce a tenere alto lo sguardo, a distoglierlo, per un istante, dall’apprensione tutta virgiliana del “sed fugit interea, fugit irreparabile tempus”, l’immagine allo specchio dirà che forse sì, siamo cambiati. Ma siamo sempre noi. E allora, davvero, davvero sarà possibile riconoscersi.
Perché, talvolta, l’unico vero abbraccio in grado di rimettere insieme i nostri frammenti rotti, di ricomporre i nostri pezzi scomposti, è quello che abbiamo il coraggio, l’immenso coraggio di dare a noi stessi.
Così come, in questo dipinto, mentre la figura reale si protende ad abbracciare la figura riflessa, nonché il proprio futuro, la vita che verrà, non può che riceverne indietro una lacrima. Una lacrima, probabilmente, di tristezza. O forse, malgrado tutto, di ineguagliabile, vergognosa, spudorata felicità.

Serena Fierro