Moiano: dieci e cento anni fa

Partendo da un evento religioso, il nostro Giacomo Porrino realizza un'analisi sociologica molto importante

Redazione
Moiano: dieci e cento anni fa

Moiano: dieci e cento anni fa ( Giacomo Porrino ) . Dieci anni e tre giorni fa. Mark Twain sosteneva che se si dice sempre la verità non c’è bisogno di ricordare ogni cosa. Il che è vero se si colloca questa perla di arguzia nel contesto storico in cui le persone condividevano variamente un comune codice di galanteria esistenziale.

Ai tempi di Twain, cioè, era ancora possibile permettersi il lusso di pensare superfluo il sigillo del ricordo a suffragio della verità storica. Oggi no, come non sfugge nemmeno ad osservatori occasionali. Oggi si dicono bugie, molte bugie, troppe e grossolane.

Soprattutto si praticano gli allevamenti intensivi della dimenticanza. Sicché saremmo costretti a una piccola inversione del pensiero dell’autore de Le avventure di Tom Sawyer. Oggi, nostro malgrado, se si dice sempre una menzogna c’è bisogno di ricordare perlomeno qualcosa.

                                                                                                                                                                L’incoronazione della Vergine Nera

Proviamo a farlo. Dieci anni fa, più tre giorni, le comunità della Valle Caudina si sono ritrovate a Moiano per celebrare il centenario della incoronazione della Madonna della Libera, la vergine nera presso cui da tempo immemore vive un culto storicamente rimarchevole.

Ne ho già accennato recentemente riguardo il suo tesoro votivo. Era il 1914, Alessio Ascalesi, allora vescovo di Sant’Agata de’ Goti dal 1911, volle solennizzare un culto plurisecolare ampiamente innervato nella religiosità popolare più autentica, ponendo sul capo di Santa Maria di Moiano una corona realizzata con la fusione di una parte del cospicuo tesoro di ex voto che sempre ha accompagnato la sua storia. Il promotore di tutto questo fu don Vincenzo Mango senior. L’autore dell’architettura devozionale, come ci pervenuta fin qui, che ha chiuso l’Ottocento introducendo il Novecento.

La sua figura e il ruolo decisivo che ha svolto nella dinamica storica della devozione caudina alla madonna di Moiano, è stata approfondita nel mio Dilexi Decorem, del 2002. Ormai introvabile, ma i più ardimentosi potrebbero provare a rintracciarne qualche copia residua nella parrocchia di Moiano.

Era il 1914, dicevo, e la cerimonia di incoronazione voleva essere l’atto conclusivo di una serie di intuizioni importanti che il Mango è riuscito a realizzare, tra vicende alterne e talvolta controverse. Le cronache del tempo raccontano di un grande concorso di popolo, proveniente da tutti i comuni della Valle Caudina.

Dieci anni prima, nel 1904, si inaugurava la nuova cappella che avrebbe custodito da quel momento in avanti la statua della madonna tanto venerata. Un anno dopo l’incoronazion, era il 1915, il vescovo di Sant’Agata de’ Goti sarà promosso alla cattedra arcivescovile di Benevento.

L’anno successivo, papa Benedetto XV lo nominerà cardinale. Nel 1924, dieci anni dopo l’incoronazione della vergine nera moianese, il giovane cardinale Ascalesi sarà promosso arcivescovo di Napoli. Dove gli saranno intitolati un ospedale e il seminario arcivescovile.

                                                                                                                               Le dimenticanze colpevoli

Dalle parti del Caudio invece niente, accompagnandosi alla lista di nomi importanti e dimenticati cui non si è dedicato neanche un fondaco. Carlo di Borbone, Vanvitelli, Giaquinto, D’Adamo, Antonini, Fischetti, Brunelli, di Capua, Bottiglieri, De Mura, del Pò, Barilla, Colonna di Stigliano, Tofano. Niente, appunto.

Ma torniamo a cento anni dopo, l’otto settembre del 2014. Don Valerio Piscitelli, allora parroco di Moiano, visibilmente emozionato dalla circostanza oltreché da una straordinaria presenza di folla, incorona nuovamente il capo della madonna nera alla presenza del cardinale Darío Castrillón Hoyos, convenuto da Roma per l’occasione, dal vescovo di Cerreto-Telese-Sant’agata de’ Goti, mons. De Rosa e dal vescovo di Caiazzo, mons. Valentino Di Cerbo.

In quella circostanza, prevedendo un afflusso più cospicuo del consueto, è stato allestito un palco esterno sul sagrato della chiesa di San Pietro apostolo anche in considerazione della presenza di quasi tutto il presbiterato diocesano.

                                                                                                                                                   L’ultimo avvenimento di rilievo

Ma quel palco avrebbe dovuto essere un unicum, una eccezione volta alla celebrazione di un momento così importante, contrariamente a quanto purtroppo si è dovuto registrare in seguito. La mattina dell’otto settembre di dieci anni fa tutto si è svolto con partecipazione sincera attraverso una organizzazione semplice ma rigorosa. Ed è, non per un caso, l’ultimo avvenimento di rilievo, determinato cioè da un significato autentico, che ha riguardato la comunità locale. Realmente, intendo.

Don Valerio Quirino Piscitelli subentra allo scomparso don Roberto Cesare nel febbraio del 1996. E tra la seconda metà degli anni Novanta del Novecento e gli anni Dieci del secolo presente realizza una serie di opere che solo una visione di tipo storiografico permette di percepire nella loro dimensione di insieme.

La quale è considerevole se si pensa alla decorazione della navata destra della chiesa parrocchiale, la costruzione del cavedio perimetrale di tutto il complesso (incluso la cappella della madonna nera) allo scopo di proteggerne i danni derivanti dalla umidità, passando poi alla decorazione della navata sinistra, alla delicata operazione della traslazione del battistero, condotta con perizia ed estrema cautela (come tuttora è possibile osservare).

La realizzazione dell’impianto di riscaldamento, per niente facile considerata la difficoltà che presenta una impiantistica di questo tipo in una contesto storico-artistico delicato. Da questo ne è derivata l’ispezione e la pulizia degli ambienti ipogei della chiesa che ha permesso tra l’altro l’individuazione di un ipogeo funerario a scolatoio destinato al ceto ecclesiastico così come due ipogei di patronato privato, situati nel transetto, dei quali opportunamente è stata decisa la dissimulazione.

                                                                                                               L’ultimo lavoro di Roberto Diamanti

Ancora, la decorazione della cappella della Madonna della Libera, che fino a quel momento versava in uno stato di pessima conservazione, l’ultimo lavoro eseguito a Moiano da Roberto Diamanti, valente decoratore che fino a quel momento aveva lavorato a più riprese in San Pietro apostolo.

La ripavimentazione della sagrestia, un tempo chiesa di San Filippo Neri, e il restauro della sua volta che ha permesso il rinvenimento di affreschi tardo settecenteschi di grande significato. La risistemazione di alcune parti del tesoro votivo. La ricostruzione delle opere parrocchiali sulle vecchie strutture fatte erigere dal parroco Mango senior agli inizi del Novecento.

Senza contare il già citato Dilexi Decorem, che con dolce insistenza don Valerio mi ha chiesto di scrivere proprio in occasione della inaugurazione dei lavoro di decorazione della cappella di Santa Maria di Moiano e, soprattutto, la preziosa collaborazione che la parrocchia ha voluto prestare alla inaugurazione dei lavori di restauro della chiesa di San Sebastiano, sulla scorta del Tommaso Giaquinto «ritrovato» di dieci anni prima, contribuendo concretamente all’ultimo evento culturale di rilievo visto in queste contrade.

Ma personalmente penso che l’opera più significativa realizzata dal sacerdote durazzanese sia stata proprio quella che non si vede, quella che non si tocca. La sua capacità di entrare nell’ordito sociale di una comunità, la sua attitudine spiccata alla empatia e alla facilità del dialogo, la sua brillantezza nel saper parlare alle persone, la semplicità efficace della sua catechesi retta da studi teologici e dottrinari rigorosi, come quelli che si svolgevano un tempo.

                                                                                                                                                         Inopinata contentezza

Doti che ancora oggi sono ricordate da molti e che molto dovrebbero far riflettere quanti, nel gennaio del 2015, si vollero consegnare a inopinate scompostezze di contentezza. Sperando in chissà quale messia in arrivo.

Certamente, com’è inevitabile accada, si commettono errori. Mancherebbe altro. Ed errori anche non irrilevanti, come quelli di aver accidentalmente distrutto alcuni rinvenimenti funerari altomedioevali durante i lavori di realizzazione del cavedio perimetrale della chiesa parrocchiale.

Un banale, quanto fatale malinteso con la ditta esecutrice dei lavori ne ha cancellato le tracce. Ma non la memoria, che mi piace rammentare in questa sede. Oppure la mancata occasione di utilizzare gli ipogei della chiesa, opportunamente correlati, come sede di esposizione permanente del tesoro votivo e il recupero di una parte importante del complesso parrocchiale.

Fiducia malriposta

Oppure, ancora, la mancata catalogazione dello stesso tesoro votivo della madonna nera, sulla cui indispensabilità peraltro lo stesso don Valerio si è sempre dichiarato concorde. Ma, di più, per quanto mi è stato dato osservare, il suo errore più ingente è stato proprio l’aver riposto fiducia in coloro i quali non hanno poi mostrato di meritarla, contribuendo non marginalmente alla sua decisione di lasciare Moiano.

L’ultimo atto della sua presenza moianese, come si diceva ab ovo, è stato il centenario della incoronazione della Madonna della Libera. Probabilmente la chiusura ideale di un ciclo iniziato nell’ultimo venticinquennio del XIX secolo e di fatto compiuto agli inizi del XXI.

Dopodiché ognuno è libero di valutare ciò che ne è seguito, o che cosa non è seguito. È sotto gli occhi di tutti, a patto si sia ancora muniti di occhi per vedere, beninteso. Poiché non è dato per scontato come terminata una fase ne segua necessariamente un’altra.

Celebre è infatti l’aneddoto che riguarda Giancarlo Pajetta, il quale rispondendo alla domanda di un compagno di partito su quale fase sarebbe iniziata dopo la morte di Palmiro Togliatti, questi ebbe a dire che dopo la morte di Togliatti sarebbe finita una fase e non ne sarebbe iniziata nessun’altra. D’altronde, non prògredi est règredi (non progredire è regredire). Può essere la risultante di una scelta o di una fatalità. O il mesto combinato disposto di entrambe.

Cosa resta?  Il resto di niente

Che cosa resta dopo dieci anni di quel centenario? Che cosa è diventata l’autenticità di quello slancio così percepibile allora? Nulla è falso nei processi etnografici, ogni elemento che segna il procedere temporale di una comunità manifesta irrefutabilmente i segni che la determinano. Siano essi pregevoli o mediocri.

E dunque forse possiamo noi considerare come inautentici i tempi che ci ritroviamo a vivere attualmente? Certamente no, ed è proprio in questo che sta il problema. Perché se autentici erano lo slancio, la partecipazione e il pathos connettivo palpabile dieci anni prima, altrettanto autentico è l’insieme fortemente degradato di una comunità la quale dopo appena dieci anni mostra nitidi tutti gli indicatori di regressione culturale, comportamentale, sociale, cognitiva, economica, politica che agevolmente è possibile individuare.

Occasione impietosa

E quale occasione icasticamente più impietosa mostra tutto questo se non, per l’appunto, un confronto impietosamente esaustivo come l’immagine di dieci anni prima, don Valerio che incorona simbolicamente la madonna nera e l’immagine, ben meno esaltante, della stessa madonna nera salutata oggi nell’atto conclusivo della sua processione da una salva di telefoni illuminati e agitati come a un qualsiasi concerto di un cantante alla moda?

Ognuno come una star istantanea, cui basta aggiungere acqua e mescolare, diceva David Bowie. A ciascuno le proprie valutazioni, Ma davvero sarebbe interessante chiedere a ognuno dei presenti che si sono prestati a questa manifestazione, se per caso non abbia sfiorato loro l’idea di stare strappando un po’ di quel tessuto antico che ancora li terrebbe legati al bello di un luogo già per molti versi perduto.

Tracollo di un insieme sociale

Ecco, proprio in questa divaricazione dolente e profonda, è possibile vedere quanto sia facile osservare il tracollo di un insieme sociale. Quello stesso insieme sociale, fatto di persone, di molte persone, che come ogni anno si sono poi recate a rendere il saluto a Santa Maria di Moiano. Senza tuttora rendersi conto di quel danno alla base del gruppo ligneo che più di una volta ho cercato di segnalare alla attenzione di tutti, vanamente.

Quel danno, quel buco, da semplice effrazione di un manufatto si pone sempre più come la voragine della cattiva coscienza di tutti. Quanti moianesi, quanti caudini, quanti oves et boves et universa pecora sono anche quest’anno passati innanzi alla statua della madonna quasi toccando quel buco senza peraltro chiedersene il perché e chiedere di conseguenza il perché a chi avrebbe avuto il dovere di spiegare?

Quanti hanno quasi sfiorato quel buco senza fare un piega? Quanti non l’hanno neppure visto? E quanti tra quelli che invece hanno notato, non hanno sentito il dovere e il bisogno di chiederne conto? Quanti tra i presenti in chiesa saranno passati davanti al tesoro votivo, anche quest’anno allestito scriteriatamente, senza punto provare alcuna perplessità?

E quanto responsabili sono costoro di quella stessa deriva antropologica di cui sono al contempo vittime e carnefici, persi in una una tautologia senza rimedio che annega tragicamente nel silenzio? Quel silenzio agghiacciante cui è stato ridotto il canto processionale (il documento più antico del culto moianese, su cui sarebbe il caso di tornare più approfonditamente) proprio nel momento nel quale la sua climax emotiva trovava il suo culmine simbolico e antropologico in uno con la esperienza di religiosità popolare mirabilmente tenute assieme da un sentimento connettivo, sempre più negletto.

Negletto perché semplicemente non compreso, non conosciuto, rifiutato da un approccio sempre più superficiale, stolido e autolesionista. Soprattutto da un modus completamente privato di amore.

E noi, schiavi sorridenti di un presente corrotto dalla indifferenza, condannati all’oblio permanente, incatenati alla ignoranza iperconnessa, sottomessi gaiamente alla disinformazione più vieta, nessuno di noi potrà farsi da parte davanti al demerito di aver allestito, più o meno inconsapevolmente, una delle fasi più mortificanti di questa lunga storia.

Dispersi in un presente senza forma

Jean-Paul Sartre ricordava che si è sempre responsabili di quello che non si è saputo evitare. E nel caso segnato, la responsabilità di non aver saputo evitare il pericolo di un vero e proprio disturbo dissociativo d’identità. Quella identità incomprensibile a tutti quei moianesi, tutti quei caudini, a tutti coloro che, dispersi nel presente senza forma, hanno smesso di riconoscere il futuro.