Montesarchio e il romanzo Noi credevamo
Montesarchio e il romanzo Noi credevamo. Nessuno ha tentato sinora, se non sbaglio, un richiamo fra Montesarchio e Noi credevamo, romanzo storico pubblicato da Anna Banti, al quale ha recentemente restituito notorietà il film di Mario Martone.
Anno 1883: in esilio a Torino, Domenico Lopresti, nonno paterno dell’autrice, scrive della propria vita di repubblicano vissuta fra ideologia e azione: l’attività politica clandestina, la prigionia a Procida, Montefusco e Montesarchio con Carlo Poerio, la disillusione postunitaria.
28 maggio 1856: per un ordine improvviso, trenta detenuti repubblicani e antiborbonici vengono trasferiti nel carcere con “il negro Taburno vigilante su Montesarchio”, nel “perfetto isolamento di questa rocca militare, convertita alla lesta in un carcere” che “aveva l’aspetto di una fortezza solitaria, e si ergeva su una rocca scoscesa al cui piede solo poche casupole e una cappellina si contavano.
La torre, cupamente maestosa
Il luogo era cupamente maestoso, la valle da cui emergeva la rocca era circondata da monti dirupati, come il Taburno, scuri sulla cima” … “All’interno, la rocca era disposta a corsie circolari a più piani su cui si affacciavano le celle e ciascuna aveva la sua finestra ferrata, non però esigua, luce e aria non ci mancavano: di spazio ne avevamo in abbondanza.
È in parte per questo che se rievoco Montesarchio, ho l’impressione di averci sempre abitato da solo, non ricordo infatti con chi dividessi la cella … “. Dopo l’attentato del 1856 al Re Ferdinando II “… ci cacciarono in cortile sotto una gelida pioggia ad aspettare l’esito di una rovinosa perquisizione (la prima a Montesarchio) dei nostri cenci”.
Scorrono i ricordi dei compagni: “L’ultima volta che vidi don Sigismondo (Castromediano) a Montesarchio fu quando mi portò la notizia della sventurata impresa di Pisacane e della sua morte”; ma anche del carceriere: “Gli ultimi tempi di Montesarchio li consumai dunque in una specie di serenità …
Nessuno mi aveva impedito di allogarmi nella cella migliore del carcere, una stanza spaziosa, provvista di un’ampia finestra a specchio dei monti … Privo di detenuti, Montesarchio si andava purgando dalla sporcizia e dagli insetti.
Gennaro il carceriere
Gennaro curava il bucato delle mie poche biancherie e mi procurò, nei mesi freddi, persino un braciere che non mancava mai di carbonella … Non avendone più notizia, ero certo che la mia famiglia fosse estinta o ridotta – per colpa mia – all’estrema indigenza.
Meglio dunque aggrapparmi alle mura di Montesarchio, come un eremita alla sua grotta … Dormivo tranquillamente e a lungo: ora lo strepito metallico delle sbarre e dei chiavistelli non mi allarmava più, anzi lo registravo con un certo piacere, esso precedeva l’apparire di Gennaro sulla soglia della cella, con quello che lui chiamava caffè, ed era una brodaglia scura e calda, non del tutto sgradevole: era lui, adesso, il mio cuoco” …
“A Montesarchio dormivo lungamente. Anche di giorno bastava che mi stendessi sulla branda e subito gli occhi mi si chiudevano … “… Quel che è seguito alla mia partenza da Montesarchio è un succedersi di acquiescenze contraddette da una volontà mal domata, un viaggio senza bussola …
Non scriverò più una linea, mi dicevo l’altra notte, convinto di aver seppellito a Montesarchio il significato e il valore della mia vita … pensavo all’isolamento di Montesarchio come a un paradiso”.
Noi credevamo è corale rimpianto nel titolo e nella chiusa; oltre alla curiosità delle numerose citazioni di Montesarchio, è nella lettura non convenzionale dell’Unità d’Italia l’interesse di queste memorie, racconto amaro di uno Stato malnato e di un Risorgimento tradito e, perciò, “scritto con rabbia”. (Foto da web)
Massimo Zullo