Paolo Petti. Di un quadro d’erba e mille porte ancora

E' un crimine far cadere nell'oblio un gigante del genere. Giacomo Porrino ricorda la sua figura e sua arte

Redazione
Paolo Petti. Di un quadro d’erba e mille porte ancora

Paolo Petti. Di un quadro d’erba e mille porte ancora( di Giacomo Porrino ) Se qualcuno, svoltando una curva alla fine degli anni Settanta, distratto e fatuo, si fosse imbattuto in un tizio che stava dipingendo quadri d’erba. Se qualcuno avesse deciso di trasferirsi in città, lasciando aperta la vecchia porta di casa nel frattempo sparita nella stessa erba.

Se qualcuno, rincorrendo la velocità con cui quell’erba ha seppellito e custodito tutta la grammatica della identità profonda di ogni luogo che attraversiamo, si fosse chiesto dove fosse finito quel paesaggio che aveva lasciato.

E se qualcuno si fosse chiesto, se qualcuno ancora oggi si chiedesse, quale paesaggio c’era negli occhi di quel pittore, di quel tizio che aveva voluto portare il suo cavalletto dinanzi il silenzio di quei prati, non potrebbe che muovere una sola domanda.

Si chiamava Paolo Petti

Chi è il tizio, chi è il pittore? Siamo plausibilmente tutti noi, avvoltolati dalle spire ineludibili della identità che si dà convegno in un solo sguardo. Quello sguardo. Lo sguardo di quel tizio, di quel pittore, di quell’artista. Si chiamava Paolo Petti.
E visto come stanno attualmente le cose, tocca anzitutto ricordarlo didascalicamente. Paolo Petti è stato uno degli scenografi più significativi e influenti in Italia nel secondo dopoguerra. Molisano di origine, ma caudino per vocazione, ha vissuto e lavorato in Airola per buona parte della sua esistenza.

La sua opera ha attraversato alcune delle esperienze teatrali, televisive e cinematografiche più importanti tra gli anni Settanta e gli anni Novanta. Circa settanta scenografie realizzate per la Rai, commedie teatrali, film, sceneggiati.

Tra cui è bene ricordare almeno I ragazzi di Padre Tobia, Galantuomo e transizione, Saturnino Farandola. Ma sono tante le parti di un mosaico complesso legato a una vicenda artistica come quella di Paolo Petti. Troppe per essere tenute insieme nello spazio esiguo di un articolo.

Ma sia permesso almeno ricordare, pescando quasi per caso nello scatolone delle sue esperienze, la collaborazione con personaggi come Carlo Quartucci così come le sue scene per Pescatori, di Viviani e Nozze di sangue, di Garcia Lorca. Ma molto altro ancora sarebbe necessario ricordare.

Come è possibile intuire da queste brevi note, si tratta di una storia personale e artistica preziosa. Preziosa nei riguardi del ricordo che noi contemporanei, residuali renitenti alla barbarie dei tempi presenti, dovremmo avere la forza di portare in maniera degna e adeguata.

Paolo Petti era un sincero esploratore dei sentimenti di una terra, quella caudina, che mai ha inteso abbandonare. Come avrebbero fatto altri, come hanno fatto molti altri. Era irredimibile l’entusiasmo che lo investiva ogni volta si trattava di trovare le forze per un impegno legato a queste terre.

Non ha mai negato aiuto, consigli, suggerimenti. Come quando don Roberto Cesare, allora parroco di Moiano, attendeva alla realizzazione del nuovo portale della chiesa di San Pietro apostolo. Mi fu chiesto, dal parroco Cesare, un parere riguardo che cosa fare e come muoversi per realizzarlo.

Ebbi modo di sviluppare un ragionamento che semplicemente voleva far presente la necessità di percorrere le strade dell’arte contemporanea come la sola via plausibile per una opera simile dal momento che, semplicemente, essendo contemporanei sarebbe stato ben necessario avere il coraggio di esserlo usando il linguaggio della nostra contemporaneità, evitando inutili e dannose fughe nel falso storico. Che è molto facile, ma altrettanto molto stolido e non meno volgare.

Fu coinvolto Paolo Petti, il quale subito organizzò un incontro con Mimmo Paladino. Una mattina tra il 1990 e il 1991 (troppi sono gli anni trascorsi per un ricordo preciso a braccio) don Roberto Cesare e Paolo Petti con Mimmo Paladino, nella sua casa studio di Paduli, decisero che il progetto avesse una sua validità, sancirono l’incontro di quella esigenza con il loro entusiasmo.

Mimmo Paladino si mostrò subito molto convinto di voler realizzare il portale della chiesa parrocchiale, evitando l’uso del bronzo in favore di una pietra chiara, e affidando a Paolo Petti un intervento di ridisegno dell’intera piazza San Pietro. Perché Paladino non voleva limitarsi al solo gesto di un portale, aveva ambizioni più importanti e significative.

Non il solo oggetto portale, limitato e dunque poco interessante, ma scolpire attraverso il segno della scenografia di Paolo Petti, l’intera scena urbana dove questo portale avrebbe trovato la sua collocazione. Un vero progetto di disegno urbano promosso da una sincera volontà di arte contemporanea.

Un’ambizione che, fosse stata realizzata, oggi sarebbe in tutti i manuali di storia dell’arte contemporanea. Purtroppo le cose andranno ben diversamente, come presentemente si può osservare. Mancando una occasione imperdibile e di tale rilevanza che a molti non potrà sfuggire.

Racconto tutto questo perché ero presente a quell’incontro e mi piace condividerlo, sebbene ancora inedito, perché mostra nitidamente, anche da questo punto di vista, quale fosse l’amore di Paolo Petti per la sua terra. La sua terra caudina, la sua terra di Airola, la sua terra di Moiano.

Che cosa resta oggi della eredità di Paolo Petti? Quali sono i segni della sua opera che ancora oggi potrebbero e dovrebbero intercettare l’interesse generale? Quali i prodigi nascosti nelle piegature delle scene per i Pescatori, la Fantastica storia di Don Chisciotte, Processo per magia, Stanza ammobiliata, Lo specchio lungo, La signora cambia pelle, Le straordinarissime avventure di Saturnino Farandola, La paura dei fulmini, Il naso, Uccidiamo il chiaro di luna, Mozart a New York, Edipo, La sposa di Messina, Festa para un gentilhombre, Il Socrate d’immaginario e molte altre avventure visionarie in carta e scenotecnica?

Niente di più semplice, resta tutta la marca profonda di un uomo prezioso, un favoliere cortese, un esploratore del profondo attraverso la bussola cartacea di una quinta scenica. Resta il suo racconto garbato e permanente della memoria profonda in un campo d’erba, quei campi che tanto ha colto nella loro essenza misterica e negletta. Resta il suo piglio scenografico allestito su incessanti slittamenti onirici.

La scenografia di Paolo Petti, parte della memoria del teatro, del cinema e della televisione italiani, si colloca ancor più sediziosamente nella prospettiva di una vicenda artistica autentica. Costruendo con la sola forza delle sue visioni e delle sue sole mani, intrighi emotivi e sentieri narrativi dentro i quali chiunque di noi, fino a un certo punto, si è trovato a incamminarsi. Che se ne fosse consapevoli o meno.

Adesso, nel momento in cui anche la figura di Paolo Petti rischia di essere ceduta all’oblio informe e ignorante dei tempi maldestri che ci tocca vivere, appare irrimandabile l’idea di tracciarne un compendio ragionato nelle forme di una grande retrospettiva.

Un grande catino concettuale ed emotivo nel quale collazionare ogni aspetto, tra quelli noti e quelli inediti, della storia artistica dello scenografo caudino. Naturalmente affidata al rigore di una cura all’altezza del compito e organizzata secondo l’importanza del caso.

Non sono affatto sufficienti premiazioni posticce, evocazioni episodiche e aneddotiche sparse qua e là seguendo una fiumana mediocre e senza alcun valore. Paolo Petti merita qualcosa di adeguato alla sua storia e quello che ci ha lasciato, senza più affidarci alla ipocrisia ributtante di quanti pur rammentandone larvatamente la figura si limitano a risolvere il problema eludendolo.

I comuni di Airola e di Moiano sono chiamati, senza elusioni e indugi, a sostenere una iniziativa volta a ricordare definitivamente un uomo che ha attraversato queste terre, queste famiglie, donando lo scrigno di uno sguardo definitivo. I comuni di Airola e di Moiano non possono sfuggire a una tale responsabilità, almeno a questa perlomeno.

La famiglia di Paolo Petti, che custodisce con amore parte della sua memoria artistica, sono sufficientemente certo sia pronta ad affiancare e collaborare con ogni forza possibile per un simile scopo. Ambizioso, certo, ma non impossibile. E quand’anche apparisse impossibile, tanto più sarebbe il caso di provarci per spezzare la cortina di ferro della depressione culturale attuale.

È un dovere umano, culturale, civile opporre ogni voce gentile alla fiera del silenzio irregimentato dalla indifferenza. Paolo Petti lo merita, e in fondo se lo merita chi ancora lo ricorda e cercherà di ricordarlo veramente. Forse è tardi, ma non ancora troppo tardi.

Luigi Dami scriveva che «nel Canaletto non c’è scenografia: egli si profonda tutto nel paese, e lì tra acque, pietre e cieli, ritrova la sua pittura, fresca come le cose nate allora». Ed è precisamente nell’ordito di acque, pietre, cieli e prati metafisici, nel richiamo di quell’allora che ancora oggi possiamo ritrovare tutto il profondo sensibile che non per un caso abitava gli occhi di Paolo Petti. Una scenografia senza teatro in cui muovono ancora oggi tutte le gestualità archetipiche di chi sia ancora in grado di riconoscerne il disegno.