Valle Caudina: Umberto Bile e il futuro di una volta
Un sentito ricordo di un grande intellettuale
Valle Caudina: Umberto Bile e il futuro di una volta ( di Giacomo Porrino ) .
E’ il 2012, un edicolante di Via Duomo a Napoli così sbrigativamente commenta con un avventore la nomina del nuovo direttore del complesso dei Girolamini a Napoli, subito dopo lo scandalo del suo saccheggio subito proprio con la complicità del vecchio direttore. «Eh, mo’ avimmo nominato n’ato mariuolo».
L’avventore, di rimando, «No, questo qui non viene per rubare, vedrete». L’avventore era il mio amico Umberto e il nuovo direttore in questione era Umberto Bile. Il quale naturalmente non ha rivelato all’edicolante la propria identità se non qualche tempo dopo, diventandone peraltro assiduo compagno di caffè.
Umberto Bile era un caudino di rimbalzo, come sovente lo chiamavo. Discendente di caudini per vocazione ancor prima che per origine familiare.
Proiezione di un amore per la Valle Caudina che non prevedeva obblighi falsamente identitari o speciose pretese territoriali
. Era figlio di un affetto vero che lo legava a queste terre e che a queste terre ha voluto profondere quella facies della sua generosità che è poi diventata nel 1993 Tommaso Giaquinto «ritrovato», essendo tra gli ideatori e gli animatori di un’avventura culturale e civile che ancora oggi si pone con la chiara connotazione dell’unicum in questa parte di mondo.
Io che, sebbene molto giovane, di quel gruppo ero parte ebbi così modo di conoscere Umberto proprio nel momento in cui una concretezza felice e determinata andava creando qualcosa di impensabile per il tempo.
Impensabile nel senso strettamente letterale della parola, beninteso. E fu proprio anche grazie a lui che ho avuto la possibilità di conoscere quanto sia bellamente pensabile tutto quello che variamente si crede non lo sia.
Di apprendere i fondamenti e i funambolismi della museografia e la necessità degli allestimenti museali concepiti nel rigore scientifico.
Umberto è stato uno degli storici dell’arte più brillanti della sua generazione, di solide basi concettuali e scientifiche. Mai assertivo, sempre disponibile alla possibilità mai retorica della interlocuzione come pretesto per ulteriori intuizioni, scoperte, idee.
Insieme per esempio abbiamo percorso tutto il novero archivistico dei siti reali caudini, in particolare il complesso del carolino, fino a quel momento mai esplorato da alcuno.
Quando su ponti, acquedotti e soprattutto di rilevanze d’archivio era assai raro incontrare un qualche interesse. Molti anni prima, cioè, che l’opera vanvitelliana diventasse una marca inutilmente pop.
Erano tante le idee che avremmo dovuto realizzare, cui lavorare per tutto quello che ci sembrava al tempo necessario. E che tale resta anche oggi. Men che meno oggi.
La forza propulsiva di Umberto era la semplicità di un sorriso pronto all’opera, senza mai inciampare in alcun intento celebrativo. Sempre soltanto l’interesse della conoscenza. E della conoscenza portata agli altri.
È stato infatti uno dei più efficaci comunicatori dell’arte che io ricordi. Un parlatore accorto che sapeva aprire le porte del racconto dell’arte con garbo e quella grazia che soltanto abita coloro i quali sanno donarla agli altri senza alcun atteggiamento. Mai atteggiamento, solo attitudine.
Attitudine figlia di quella postura umanistica gentile che lo portava spesso a secondare gli eventi con un sorriso di bonarietà ferrea.
Il suo era il modus della determinazione privata del degrado della aggressività. La preziosa maniera del fare cortese, del pensare gentile, del dire sornione ma non mellifluo, della generosità senza pietismi di rimando, della umiltà senza le facili tentazioni della retorica a buon mercato.
Nei suoi ultimi mesi chiunque avrebbe potuto vederlo ramazzare le adiacenze dei Girolamini, magari prima di attendere alla gestione delle note e complesse vicende della grande quadreria e della preziosa biblioteca vituperata dall’agire nefasto di noti malfattori dei quali per un po’ s’è parlato nella cronaca giudiziaria nazionale, prima di dissolversi nella fuliggine del silenzio ipocrita dei mezzi di comunicazione.
L’incarico di direttore del complesso dei Girolamini gli fu affidato dall’allora ministro della cultura Ornaghi perché semplicemente era tra i pochi a essere in grado di sostenerlo con efficacia e soprattutto con il coraggio che una vicenda così gravosa prevedeva.
Umberto proveniva dalla direzione della museo di Capodimonte, avrebbe potuto continuare agevolmente la sua carriera restando nelle prudenti retrovie di uno dei grandi siti museali europei, peraltro cavandone ulteriori e prevedibili progressi professionali.
Invece scelse, insieme a Mauro Giancaspro, l’impegno difficile, privo di ogni garanzia, di mettere ordine a quel che restava di uno dei luoghi più importanti per la cultura internazionale dopo lo stupro inescusabile subito silenziosamente per mesi.
La più antica biblioteca pubblica di Napoli, aperta alla consultazione dal 1586, seconda in cronologicamente in Italia solo alla Malatestiana di Rimini.
Quella che fu la biblioteca di Giambattista Vico e altri celebri capisaldi della cultura italiana ed europea, era stata saccheggiata per volere di delinquenti in doppiopetto, successivamente condannati a causa di reati troppo gravi per essere debitamente raccontati dalla corruzione intellettuale della gran parte della stampa italiana.
Non saprò mai con esattezza la portata dello sfinimento, fisico e mentale, che dovette reggere per diverso tempo a partire da quell’incarico.
La pressione del caso, che in quel momento scontava comprensibilmente una portata di richiamo nazionale, le implicazioni giudiziarie, le ricadute sulla gestione del patrimonio museale cui si doveva in ogni caso garantire la conservazione, la ricerca ossessiva di risorse anche nel privato per assicurarsi i mezzi minimi con i quali realizzare concretamente i propositi di rilancio della chiesa più bella di Napoli
. Quel gran teatro di marmi, artisti napoletani, toscani, emiliani, romani che le valsero il titolo di Domus aurea. Malgrado tutto, nonostante le notevoli difficoltà, Umberto è riuscito nel suo compito.
Da quel momento i Gerolamini conosceranno un periodo di grande rilancio e di centralità nella conoscenza non solo a favore di specialisti ma anche del pubblico più vasto dei cittadini e dei turisti.
Un periodo che perdura anche oggi, dopo il recente e delicato restauro di tutto il complesso della chiesa e della quadreria. Anche oggi, dopo quasi dodici anni dalla sua morte.
Il 1 agosto del 2013 è stato sottratto alla vita e all’affetto di quelli che gli volevano bene. E fu dunque abbastanza facile avvertire l’esigenza di ricordarlo anche e soprattutto a Moiano, sotto quella cupola che lui aveva aiutato a porre in una prospettiva storico-artistica legata allo studio della pittura di Tommaso Giaquinto.
Di cui Umberto resta ancora oggi il meridiano principale della sua analisi critica. Quella cupola che insieme abbiamo scrutato tanto a lungo, che abbiamo rovesciato numerose volte montando e smontando molteplici ipotesi interpretative.
Quella cupola, quella volta, non poteva che prendersi in carico la memoria di uno dei suoi osservatori più acuti e appassionati.
La volta intesa come elemento architettonico dove Giaquinto ha scritto il suo testamento artistico e al contempo la volta intesa come cardine temporale di un passaggio.
Un passaggio per il domani. Perché Umberto era uno storico ma con il piglio e l’istinto del domani, del futuro. Il futuro, nello specifico, della conservazione e del futuro della bellezza che noi abbiamo avuto la ventura di conoscere.
Ecco perché nacque «Il futuro di una volta», seguendo una capriola semantica che aveva lo scopo di mettere assieme lo slancio di Umberto per il futuro, la storia di una volta e il suo futuro.
E come avrebbe potuto essere diversamente se non chiamando a raccolta ancora una volta alcune tra le persone che lo hanno conosciuto e stimato quali ad esempio Tomaso Montanari, il quale ha lasciato una testimonianza memorabile che in parte ha voluto fissare in un successivo articolo pubblicato ne «Il Fatto Quotidiano» (A Moiano con il naso all’insù vedi l’Europa), parlando proprio di quella volta moianese e di quanto fosse importante anzitutto per ragioni di sussistenza civile prima ancora che storico-artistica.
Come avrebbe potuto essere diversamente se non ponendo le basi per successive opere di sollecitazione delle comunità locali.
Per sollecitare le responsabilità della bellezza che hanno ereditato dalla storia, quali per esempio il grande monumento dell’acquedotto carolino, di cui proprio con Umberto stavamo progettando di rendere pubbliche le nostre ricerche di anni prima.
Ecco perché per la prima volta, con il determinante aiuto di Andrea Massaro, altro reduce del Tommaso Giaquinto «ritrovato», che proprio Umberto amava definire «l’uomo totale», si è riusciti a condurre nello stesso luogo, la chiesa di San Sebastiano a Moiano, quattro sindaci e il soprintendente dei beni artistici e storici del tempo.
L’idea fu quella di concordare per la prima volta, e in maniera finalmente concreta, la necessità di un approccio non più distante e negletto con questa importante preesistenza. La necessità di finalmente prendersene carico, senza infingimenti e senza altre distratte ipocrisie.
Fu in quel momento che nacque un interesse e, in molti casi, la scoperta di un monumento di importanza universale che era sparito incredibilmente dall’attenzione pubblica locale.
Sono certo che Umberto avrebbe fatto lo stesso, che avrebbe pensato esattamente lo stesso. Detestando ogni forma di presenzialismo stucchevole e inconcludente.
Sono certo avrebbe fatto suo quel futuro di una volta, di tutte le volte che l’abbiamo ricordato come incitamento alla bellezza.
Quella quotidiana, quella che calpestiamo camminando ogni giorno sempre più disattenti, quella che ci appare troppo distante affinché ce ne possiamo dire coinvolti. Il futuro di una volta è proprio questo, rammentare che a ogni passo, dovunque ci si trovi, c’è un po’ di bellezza da far propria nel nostro tempo storico.
Il futuro di una volta è stato l’ultimo evento che abbia avuto una caratura culturale autentica in queste contrade, non per un caso ha avuto ancora una volta Umberto come protagonista, sebbene nella forma che nessuno di noi avrebbe voluto immaginare. Mi è stato riferito di tentativi di imitazione successivi, che lasciano miseramente il tempo che trovano. Non ha alcuna importanza.
Nella chiesa dei Girolamini qualche tempo fa è stata collocata una piccola iscrizione lapidea che ricorda l’ultimo impegno professionale di Umberto proprio in quel luogo così prezioso.
Conoscendo Umberto, ne sarebbe stato oltremodo imbarazzato. Probabilmente sarebbe stato tentato di camuffarne il nome, mirabilmente schivo come era.
Nel momento in cui molti sono soggiogati dalla logica deteriore della esibizione, quella di Umberto sarebbe stata una composta e ironica ribellione. Con quella ironia e quel garbo che ancora oggi mancano non poco.
Quella di Umberto Bile. Un compagno affidabile, un curioso infaticabile, un uomo gentile.