Airola: Un Po’ di Giacomo (di Giacomo Porrino)

Redazione
Airola: Un Po’ di Giacomo (di Giacomo Porrino)
Airola: Un Po’ di Giacomo (di Giacomo Porrino)

Airola: Un Po’ di Giacomo (di Giacomo Porrino). È forse utile una piccola avvertenza per chi legge: non mi sono ancora disperso nella palude vietnamita di esibizionismi da geranio.

Nessuna scivolatura

Saranno delusi, e sono dunque invitati ad accomodarsi altrove, quelli che avrebbero voluto scorgere elementi cui attribuire una qualche mia scivolatura autoreferenziale o frammenti di revanscismi biografici.

Si tratta invece di un piccolo tranello semantico. Insomma, una paronimia, come usano dire quelli che frequentano il linguaggio enigmistico «antico e accettato». E intende essere soltanto una piccola anticipazione di quel che sarà possibile approfondire in Plena Hedera, sperabilmente in uscita nei prossimi mesi.

La caldera caudina non di rado ha disvelato sorprese in qualche caso addirittura inimmaginabili nell’insieme del suo patrimonio storico e culturale, come ho cercato di presentare anche recentemente. E non stupisca affatto se tutto questo sia inversamente proporzionale alla conoscibilità e alla conoscenza dei locali, le cui ragioni ho già provato a spiegare in precedenza e non serve in questo momento tornarci.

Giacomo del Pò pittore tardobarocco

La caldera caudina, dicevo. Ebbene in questo caso occorre volgere indietro il calendario fino al 13 gennaio del 1700. Quando cioè Giuseppe Tofano preleva 20 ducati dal banco AGP «in conto del prezzo di un quatro con figura di S. Ignatio, et S. Francesco Saverio per servizio della chiesa della Santissima Annunziata di Airola». Ma a chi, gli amministratori della Annunziata, commissionano questo dipinto? La fonte lo dice in maniera chiara e priva di ogni possibile dubbio, è Giacomo del Pò.

Uno dei grandi protagonisti della stagione della pittura tardobarocca, colui che insieme al De Matteis esprime la forza di portare in quell’altrove chiamato rococò la pittura fino a quel momento saldamente incastrata negli intransigenti moduli giordaneschi, dando inizio a una fase del tutto nuova della civiltà artistica meridionale, lascia proprio ad Airola una delle opere più antiche del suo periodo napoletano.

Di padre palermitano, sono ancora materia di dibattito le sue origini. Non è infatti del tutto chiarito se egli sia nato a Palermo o a Roma, dove il padre Pietro si trasferisce attratto dalla enorme vitalità culturale che la capitale del papato impone alla scena mondiale durante il XVII secolo.

Ed è proprio nella Roma permeata dal segno profondo della cultura di Nicolas Poussin che il giovane Giacomo inizia la sua formazione. Non è certo sia stato precisamente un discepolo del maestro francese, tuttavia di certo ne coglie sostanzialmente il linguaggio che porterà con sé tutta la vita, elaborandolo in una maturità progressivamente sempre più destinata ad esiti originali.

Dal classicismo della scena romana al barocco maturo di quella napoletana, Del Pò riesce a trarre materia di sintesi tanto inattesa e sorprendente da porlo nel ruolo di involontario risolutore del Seicento napoletano, portando il nuovo linguaggio pittorico finanche sulla scena della esigente aristocrazia viennese, di fatto aprendo il Settecento.

Il  1700 inizia ad Airola

Cui Giacomo, in un affascinante calco di coincidenza cronologica, dà inizio proprio in quel gennaio del 1700. In provincia di Benevento, nella Valle Caudina, ad Airola, nella chiesa dell’Annunziata, nel primo altare entrando a destra.

Fin qui tutto bene, tutto molto bene. Tranne il fatto che di tutto questo bene, in un contesto più marcatamente locale, non se ne sa ancora niente. Una notizia tanto clamorosa tanto più neanche inedita, essendo stata pubblicata da Giambattista D’Addosio nell’Archivio Storico per le Province Napoletane già nel 1913.

E successivamente conosciuta e ripresa dai soliti quattro studiosi (quelli che restano di autentici, s’intende). Duecentotredici anni di silenzio e centodieci anni di successiva, ignorante indifferenza hanno tenuto ben saldo il sarcofago del silenzio su questo frammento importante della storia dell’arte del meridione presente ad Airola.

Silenzio e scatole vuote

Silenzio che ha riguardato anzitutto proprio coloro i quali pure hanno manifestato nel tempo un qualche interesse per la loro terra. Un interesse tuttavia, come tocca ripetere troppo spesso negli ultimi tempi, che se non retto da adeguata dottrina rischia al solito di rivelarsi una sequela di scatole vuote.

La tela che ci è pervenuta oggi poco fa percepire della sua preziosità a causa delle sue condizioni invero assai deteriorate e oltretutto da molti anni, secondo quanto riferisce il mio amico Franco Troiano, imbavagliata da una serie di velinature che impediscono la visione di ciò che ne resta.

La necessità del restauro

Si spera solo che tali velinature siano state applicate adoperando colle di origine animale, nel caso contrario ci troveremmo di fronte a ulteriori e più perniciosi danni da sanare. Ed è ben per questo che desidero segnalare, anticipandola per il pubblico locale, l’esistenza di questa opera, proprio allo scopo di convogliare gli sforzi virtuosi di persone di buona volontà, o qualcosa di simile, nel progetto di un restauro tanto irrimandabile quanto delicato. E che presenta sicuri caratteri di priorità rispetto al complesso di quanto pure resta da sottoporre a tutela, un complesso di per sé non esiguo.

È questo l’impegno da perseguire con pertinacia, con perseverante intransigenza. Un impegno che non lascia spazio ad attività di alcun valenza, di alcun destino, di alcuna utilità. È nel cercare di non smarrire per sempre queste presenze silenziose e importanti, che si dovrebbe svolgere integralmente qualsiasi azione volta all’interesse per queste nostre terre.

Non si può morire di aria fritta

Se di interesse autentico si deve parlare, se di aria fritta non si deve morire ogni giorno tra i salmodianti alabardieri della superficialità, dell’ignoranza, della protervia, della cieca scompostezza di chi pensa di possedere un libro solo perché ne accarezza la copertina. Magari afferrando a piene mani la velleità di spiegarlo.

Del Pò è, come accennato, filiano della matrice culturale del Poussin. È incaricato di realizzare la pala d’altare di Airola nel gennaio del 1700. Nel maggio dello stesso anno, presumibilmente quando l’opera si ipotizza sia terminata, nasce Luigi Vanvitelli. Il quale è, come ben sanno gli specialisti, un incondizionato ammiratore di Nicolas Poussin al punto tale che, quando l’architetto viene a Napoli proveniente anch’egli dalla scena romana, dichiara tutta la sua lontananza dal giordanismo propugnando apertamente la diffusione delle opere del francese nella capitale napoletana.

Oblio iniziato dopo mezzo secolo

Ma detto questo, nemmeno è sfiorato dall’idea che possa trovarsi proprio nella Airola del Fizzo un epigono della pittura che tanto ha amato. Per la semplice ragione secondo cui dopo circa cinquant’anni non lo sapeva più nessuno.

Lo dico unicamente nel tentativo di disinnescare ab ovo ogni possibile riflessologia sottonarrativa tendente a costruire improbabili e inutili cascami di stampo vagamente spettacolare.
Improbabili, poiché ridicoli. Inutili, poiché non volti al conseguimento del superiore fine della tutela di ciò che importa davvero. O che dovrebbe importare come tale. E dunque, poche ciance, occorre fare solo una cosa a questo punto, semplice e dirimente.

                                                                                                               Restaurare la pala d’altare di Giacomo del Pò

Restaurare la pala d’altare di Giacomo Del Pò, un imperativo categoricamente culturale non ulteriormente eludibile. Sarebbe addirittura conveniente, si pensi. Restituirebbe un Po’ di Giacomo a molti, affrancandoci una volta dI più dal molto dell’opaco indifferente.