La poesia del dialetto (caudino)

Il Caudino
La poesia del dialetto (caudino)

La triste ricorrenza del ventennio dalla morte di Massimo Troisi, nonché il debito riconoscimento della dignità di “lingua” (peraltro tutelata dall’Unesco) del dialetto campano, offrono spunto per una riflessione circa il valore “semantico” ed “umano” del nostro idioma originario.
Si è assistito, infatti, (in verità, anche con un po’ di enfasi e di retorica che all’amico Massimo non sarebbero piaciute) ad una sorta di rivalutazione del gergo del compianto attore partenopeo, al punto che quel presunto “linguaggio comprensibile solo ai campani”, usato da Troisi, è stato assurto a linguaggio universale dell’arte. In realtà, l’arte di Troisi era un’altra cosa, era poesia, triste ed ironica poesia. Il linguaggio, che di quell’arte era solo strumento, involucro e modalità di espressione, invece, integrava la componente “spontaneità”, “radice culturale”, “accettazione di sé” del grande comico. Probabilmente, perché senza geninuità, senza radici, l’arte non può esprimersi.
Dovremmo ricordarcene sempre, noi che del nostro idioma stiamo perdendo il “gusto”, noi che non lo insegniamo più ai bambini, che quasi ci arrabbiamo quando li sentiamo proferire espressioni tipiche della nostra “caudinità”.
Tanti termini caratterizzanti la nostra identità storica e culturale, infatti sono del tutto desueti, anche nel linguaggio corrente. Trent’anni fa, ad esempio, in Valle Caudina, si usavano parole come “pittamusso”, “pittalonghie”, “capera”, “reggipiett”, che non ho sentito mai più.
Talune frasi, alle volte, scappano anche al più forbito dei caudini; cito, ad esempio, quel “pe la Madonn” che ancora pronuncia il mio papà (originario di Bucciano), o quella “fontana co’ lo’ bettone”, che ogni tanto ricorda mio marito, vantante origini pannaranesi.
A San Martino Valle Caudina, poi, ancora si usa  “quadrana” o “quatrana”, termine tipico dell’interland napoletano), che viene dal latino, e, letteralmente, significa: “colui che cammina a quattro zampe”, ovvero “che gattona”, ed indica, quindi, l’infante, e, poi, per trasposizione, il fanciullo/fanciulla, colui che ancora è in tenera età.
In tutta la Valle, capita ancora di sentire la locuzione “Anfrasatt”n o all'”infrasatt”, che significa “improvvisamente, e costituisce assorbimento in vulgaris della purissima espressione latina “infra acta”, ovvero “in mezzo agli atti”, “nel bel mezzo”, “bell e’ bbuon”.
L’espressione rende in pieno l’idea dell’interruzione brusca di una situazione ritenuta piacevole. E’ applicata ad ogni situazione di vita, probabilmente, in ragione dell’ottimismo del popolo campano: c’è dentro la percezione della bellezza della vita, malgrado gli imprevisti. Ma questi ultimi sono l’eccezione, gli acta, le cose belle interrotte, sono la vita.
Ed in tempo di crisi, sarebbe bello ripescare l’espressione “damm’ o canz”, che usavamo per dire “dammi il tempo”. L’utilizzo del termine, che prese piede durante la dominazione francese a Napoli, altro non è che la volgarizzazione del lemma “chanche”, di noto significato. Forse, perché per noi il tempo è inteso come “opportunità”, “riflessione”, “occasione”. Dammi tempo equivale a “dammi modo di esprimermi, dammi un’opportunità, una chanche…”
Ma quello che mi piace di più, è il termine “tricare”, e le sue varie declinazioni, tipo “stai trichenn” (variante irpino-sannitica) o “stai tricann” (variante napoletana). Il lemma deriva dal greco “trikos”, che vuol dire “capello”.. A tradurla, significa “far tardi, perder tempo”. Solo chi vive in questa terra sa che non c’è perdita di tempo più grande del “contare i capelli”. Per noi, fa tardi chi si diletta in detta attività. Come concetto, richiama quello espresso dalla frase “pettinare le bambole”, ma noi sintetizziamo con un solo vocabolo.
A ben guardare, la nostra lingua vulgaris, e’ piu’ colta di una bella perifrasi… Certo, è piena di storia e di poesia. Speriamo di saperla tutelare.

Rosaria Ruggiero
gentedistratta.it