Moiano: Il demonio conosce sempre la verità

Redazione
Moiano: Il demonio conosce sempre la verità

Moiano: Il demonio conosce sempre la verità. «Guarì molti che erano afflitti da varie malattie e scacciò molti demoni; ma non permetteva ai demoni di parlare, perché lo conoscevano» (Marco 1,34). Il demonio dunque conosce la verità, ne è al corrente, sa come stanno le cose al di là di ogni menzogna di segno contrario.

Ma lasciando subito le demonologie rusticane e le improbabili pretese demonizzanti da parte di coloro che chiaramente hanno smarrito una necessaria compostezza percettiva, è bene passare subito a questioni più serie chiarendo e informando a margine di una vicenda che penso meriti l’attenzione di tutti.

Lo scorso otto settembre 2022 è stata mostrata al pubblico una epigrafe lapidea in occasione del proclamato santuario diocesano della Madonna della Libera. Ho già avuto modo, in un precedente articolo, di chiarire di che cosa in realtà si tratti tale evento e quale sia la sua effettiva significazione, specie alla luce di qualche equivoco insorto intorno a questioni terminologiche niente affatto marginali.

In ogni caso la lapide è stata inaugurata e solennemente benedetta dal vescovo presente per l’occasione. Orbene, è subito apparsa chiara l’inadeguatezza di una simile opera.

Tale iscrizione lapidea, come è del tutto evidente anche a quanti non siano addentro a complessi tecnicismi, era non soltanto un fuor d’opera in termini dimensionali, ma proprio del tutto versata a compromettere l’equilibrio delle linee architettoniche settecentesche della chiesa di San Pietro apostolo, stravolgendone la gerarchia visiva, l’assetto delle masse chiaroscurali, l’introduzione di un materiale lapideo che non stabiliva alcuna relazione con la superficie pittorica presente.

Si sarebbe potuto risolvere ben più semplicemente la questione individuando, nei partiti marmorei già presenti nella Cappella della Madonna della Libera, una matrice di ispirazione ben più plausibile secondo logica e dottrina.

Attendendo qualche giorno ho poi deciso di segnalare l’accaduto alla Soprintendenza Archeologia Belle Arti e Paesaggio per le province di Caserta e Benevento, sviluppando alcune considerazioni di merito.

L’ente ha deciso di accogliere tali considerazioni, facendole proprie e imponendo la rimozione del manufatto, avvenuta lo scorso 23 settembre 2022. Fin qui il merito della vicenda, ma come non bastasse vi è una questione legata anche al metodo, il quale presenta caratteri francamente inquietanti.

Com’è noto, ogni volta che si richiede una qualsiasi autorizzazione alla Soprintendenza, per quanto concerne beni vincolati e sottoposti alla sua «alta sorveglianza», nel caso in cui questa venga accolta sono indicate delle disposizioni che devono obbligatoriamente essere seguite.

Ebbene, se qualcuno avesse la pazienza di leggere il documento di autorizzazione – naturalmente pubblico e nella disponibilità di chiunque – che mi piace pubblicare, si legge chiaramente che: «per la targa di intitolazione, si adotti la quarta soluzione, ovvero la posa di una targa di dimensioni rettangolare apposta sul lato destro della porta di accesso della Sacrestia; l’installazione della targa dovrà avvenire dopo aver escluso la presenza di decorazioni sottostanti da accertare mediante indagini e stratigrafie».

Vale a dire che un’autorizzazione era stata effettivamente richiesta, e che era stata accolta favorevolmente con delle disposizioni però nitide e puntuali. Le quali a questo punto ognuno potrà agevolmente valutare se siano state seguite correttamente.

Pubblico a tale riguardo una immagine della lapide proprio per rendere immediato questo confronto, cui è perlomeno complicato poter sfuggire. È accaduto, in sintesi e sulla base di evidenze inoppugnabili, che le disposizioni prescrittive e vincolanti di un ente dello Stato siano state eluse, ignorate, neglette.

E giustamente, e conseguentemente, l’ente dello Stato ha disposto la rimozione di quanto realizzato indebitamente. Per una questione di merito e di metodo. Perché non era quella così voluta la soluzione più corretta e perché non era quella la maniera con cui realizzarla.

Eppure sarebbe stato sufficiente chiedere, senza l’illusione di poter fare tutto senza confrontarsi. Sarebbe stato sufficiente chiedere, non sarebbero mancati suggerimenti da parte di persone disponibili e magari addirittura competenti.

Quella della lapide più breve della storia dovrebbe a questo punto imporre una serie di considerazioni, cui nessuno dovrebbe poter sfuggire proprio a causa della loro importanza, ma per ragioni di brevità non è possibile affrontarle con compiutezza in questa sede.

Tuttavia, è il caso perlomeno di chiedersi in quale misura e con quale efficacia agiscano gli uffici della diocesi preposti alla cura di simili fatti. Del resto il documento di autorizzazione della Soprintendenza, diffuso già fin dallo scorso 13 settembre 2022, era stato indirizzato secondo prassi proprio all’ufficio tecnico della diocesi e per conoscenza al comune di Moiano.

Possibile dunque che l’ufficio tecnico della diocesi non abbia agito in vigilanza ai fini della corretta esecuzione della citata autorizzazione? Possibile come fra tutti coloro che erano a conoscenza di tale documento non fosse pervenuto se non altro un dubbio vedendo nei fatti realizzata qualcosa di profondamente difforme dalle disposizioni indicate?

E, ancora, a nessuno di costoro è sorto il dubbio se fosse doveroso segnalare l’accaduto prima che se ne incaricasse il sottoscritto? Veramente vogliamo pensare non se ne fosse accorto proprio nessuno malgrado a molti quella lapide aveva subito posto più di una perplessità?

Sarebbe infine lecito auspicare il ricorso al buon senso e alla umiltà della ponderazione per quanto riguarda il futuro? Non è dato al momento sapere. E sul punto non mi sento di profondere ottimismo, d’altro canto non m’attendo più neanche di essere smentito.

Resta però un fatto, ineludibile. Chiunque si trovi ad amministrare temporaneamente una chiesa o qualsiasi altro luogo che abbia una qualche preminenza culturale, dovrebbe sempre aver presente che quel luogo non è nella sua disponibilità personale, non gli appartiene.

Appartiene alla comunità in cui è incardinato, alla storia delle persone che lo hanno per secoli accompagnato e variamente custodito. Appartiene allo spirito di un luogo che andrebbe per quanto possibile capito, o perlomeno occorrerebbe provarci.

È questo il solo titolo di proprietà che abbia senso considerare e del quale mai dimenticarsi. Chi amministra non detiene, non possiede. Chi amministra ha anzitutto il dovere del rispetto senza rincorrere vane forme di magniloquenza. Ha il solo compito di custodire al meglio ciò che già esiste con tutte quelle buone pratiche di conservazione volte a garantirne la continuità di vita.

In un simile contesto non si chiede altro che questo. Non c’è bisogno d’altro che questo. Sarebbe davvero l’ora qualcuno possa finalmente capirlo. Speculare infatti sul presente scartavetrando il passato non è certo atteggiamento per così dire encomiabile. Non è quel che ognuno di noi dovrebbe attendersi, perché anche questo cipiglio a ben vedere mostra ancora una volta, una volta di più, quanto sia desolante il paesaggio offerto dall’antropologia del degrado.

Giacomo Porrino