Valle Caudina: I ponti delle balle. Qualche anno fa, la Duke University negli Stati Uniti ha presentato uno studio grazie al quale è stato possibile precisare meglio i meccanismi che determinano il chiamare qualcuno o qualcosa con un nome sbagliato.

Tale fenomeno è stato definito, dagli studiosi statunitensi, misnaiming. È successo a molti di noi di chiamare qualcuno con il nome di qualcun altro, in particolare nello stesso ambito sociale o familiare. È in sostanza un errore cognitivo riferito a tutto quello che viviamo in prossimità.

I lettori mi scuseranno se non sono in grado di dire a quale gruppo sociale o a quale fenomeno piscometeorico siano riferiti quelli che, a livello locale, hanno iniziato da qualche tempo, ex abrupto, a sbagliare il nome di un ponte. E sì che un ponte non è precisamente somigliante a una persona o un cane. È proprio un ponte, fatto di arcate, sormontante un fiume, cose così.

Un ponte poi che è parte della prima sezione di quella che è la più grande e ambiziosa opera pubblica del Settecento europeo. L’Acquedotto Carolino nasce proprio in questo affascinante intorno della Terra d’Airola, e sebbene sembri ultimamente godere di una certa visibilità sconta in realtà e neanche tanto paradossalmente uno dei momenti in cui più scarsa ne è la conoscenza.

Tornerò su questo tema in un altro momento. Le prime strutture dell’acquedotto si sviluppano tra i territori dei casali di Bucciano, Pontesennoni e Moiano in quello straordinario insieme di natura e opere dell’uomo un tempo chiamato Trepponti.

Erroneamente si intende tale toponimo situato più a nord verso la gola di Sant’Agata dei Goti, in realtà si tratta proprio dell’area dove attualmente si trova il primo ponte del Carolino.

Il terzo di tre ponti che caratterizzavano l’area in cui insisteva lo snodo viario più importante di tutto il feudo airolano, dove la maggior parte dei traffici derivanti dalle attività molitorie trovavano il loro naturale sviluppo attraversando la Limata del ponte lungo la scafa fluviale dell’Isclero verso nord, il ponte antico che collegava il casale di Bucciano con quello del Castellone a Tuoro e quindi Moiano, senza contare il collegamento con il casale del Borgo già peraltro collegato anche grazie al ponte della Palata.

Ma il ponte di cui si parla qui è quello più recente, essendo stato costruito a partire dal 1753, chiaramente il più importante e il più celebre per ragioni evidenti. Degli altri due resta visibile a pochi metri, in stato pressoché di rudere a causa della totale incuria cui è tenuto, solo quello che conduceva al casale di Bucciano.

L’altro, che sormontava l’affluente Iemale, non è più esistente. Le fonti in merito sono molteplici e chiaramente univoche, e – si pensi – talvolta sarebbe addirittura sufficiente compulsarle con avvedutezza per evitare svarioni talvolta imbarazzanti.

Ma lasciamo per un momento queste diversioni, presumo interessanti ancorché tuttora inedite, per tornare alla Duke University. Da qualche tempo alcuni bontemponi hanno iniziato a chiamare il primo ponte del Carolino con il nome di Carlo di Borbone.

Lo si evince da improbabili tabelle segnaletiche, calendari formidabili in cui le menzogne affermate sono smentite simultaneamente proprio da lacerti di documenti riportati (che evidentemente nessuno ha letto), piccola e maldestra comunicazione di ambito locale. Tutto rumore di fondo che però rischia seriamente di distribuire disinformazione e ulteriore confusione.

Cerchiamo allora di capirci bene, una volta per tutte. Il Ponte che taluni si ostinano a chiamare «Carlo III» non è purtroppo neanche un effetto di misnaiming, di confusione, di contrazione cognitiva di tracce male interpretate. No, tale nome semplicemente non è mai esistito, non esiste perché non ne esiste alcuna corrispondenza nelle fonti.

Non esiste perché non è mai esistito un ponte chiamato così. Un nome oltretutto che questo ponte mai avrebbe potuto avere, come ben sa chi abbia un minimo di confidenza con simili questioni.

Luigi Vanvitelli non è mai stato sfiorato dall’idea di chiamarlo in questo modo come qualche strampalato residuo di involontaria attività lisergica vorrebbe credere. Non v’è niente di più laido e pericoloso della mistura tra capriccio e ignoranza, non è chi non lo veda anche in questo caso.

Accade che un nome, propriamente inteso, il ponte non l’abbia mai avuto. Il suo ideatore lo ha menzionato in alcune fonti con l’appellativo di Nuovo, e non certo per riferirsi a un generico gesto di auspicio affidato a un vago concetto di futuro, ma proprio invece per legare la presenza del suo ponte a quella dei ponti preesistenti.

Il ponte nuovo, appunto. In altre fonti è poi riportato come «ponte sul fiume Faenza», per individuarlo rispetto agli altri del Carolino e per ragioni legate alla gestione tecnica della sua manutenzione.

Nella stessa Dichiarazione dei disegni del Reale Palazzo di Caserta, pubblicato nel 1756, il suo autore lo chiama, indovinate un po’, «PONTE DELL’AQVEDOTTO REALE DI CASERTA SVL FIVME FAENZA».

E chiarito brevemente tutto questo, sarebbe da chiedersi: ma se il benedetto e fin troppe volte sfacciatamente evocato Vanvitelli non ha mai pensato di dare un nome a nessuno dei suoi ponti – che sono, ricordiamolo, pur sempre parti di un acquedotto, legati strettamente quindi a una vocazione funzionale – perché mai qualcuno localmente insiste a volerlo chiamare con un nome completamente fasullo, arbitrario, posticcio, involontariamente comico?

Chiaramente questa anche piccola fenomenologia si inscrive in quella più generale della antropologia del degrado di cui ho parlato in qualche altra occasione, ma in questo caso c’è di più e più chiaramente inquietante. La volontà cioè di dismettere per un momento l’indifferenza verso i materiali della identità al solo scopo di farne bandiera per le proprie mediocrità razzenti.

Abusare delle complessità della storia, che si ignora e si continua a ignorare bellamente, perseguendo un modus del tutto velleitario e pressapochistico in un contesto squalificante.

Sarebbe il caso di interessarsi al monumento molto più di come sfruttarlo come scenario gratuito per mascherate in costume dal gusto vieto, buone solo all’ansia da protrusione esibizionista di quanti neanche si accorgono dello stato miserevole in cui il ponte versa da molto tempo, essendo già da anni oggetto di spoliazioni e abbandono.

Se i risultati del tanto cianciato interesse per il famoso territorio sono questi, ben sarebbe auspicabile il ritorno del flipper come strumento di intrattenimento collettivo.

Se una pietra non ha un nome precisamente individuato, ci conferisce forse il diritto di darne uno arbitrario? E sulla base poi di quale considerazione di merito? E allora perché non Ponte Amalia, Ponte Gerosolomitano, Ponte delle Due Sicilie, Ponte Utriusque et Aliter ed Eventuali?

In questo senso, sarebbero attese, perché no, le rivendicazioni dei nerboruti sostenitori dei diritti botanici delle varietà floristiche locali, della ex fauna ittica presente nel fiume, per non tacere dei diritti post mortem in memoria di tutte le carcasse bovine abbandonate nelle acque dell’Isclero.

Anche costoro potrebbero essere mossi dalla velleità di imporre un nome pur che sia. Dopodiché, certo, non sarebbe più un ponte ma una vera enciclpedia dello sciocchezzaio più imberbe.

E dunque, senza neanche incomodare complicate considerazioni di marca storiografica, sarebbe buona pratica tornare a pratiche di semplicità. Se Vanvitelli lo ha indicato come Ponte Nuovo non è certo per una astrazione priva di spazio e di tempo.

Lo ha chiamato in questo modo non per distinguerlo dagli altri che sarebbero stati realizzati successivamente (altrimenti avrebbe adoperato il nome di Primo Ponte o Ponte Primo).

Lo chiama invece Ponte Nuovo, plausibilmente più per un moto di istinto dato dalle circostanze che per una compiuta riflessione peraltro resa difficile nel contesto di quegli avvenimenti spesso concitati, proprio in ragione della preesistenza di un sistema di ponti e strutture viarie peraltro determinanti per le sorti della economia della comunità locale del tempo.

D’altro canto è bene sapere come il preteso nome «Carlo III» non appare in alcun modo nel repertorio della letteratura in argomento. Valga per tutti il caso del Bartolini, che nel 1827 chiama il ponte come «detto Trepponti». E riferisce un toponimo legato alla pratica quotidiana non specifcamente riferito a un ponte il cui nome è stato poi nel tempo smarrito insieme al suo stesso autore.

Perché, è bene ricordare anche questo, fino a molti anni fa, quando ce ne occupammo con un gruppo di amici, coinvolgendo per la prima volta le istituzioni locali sulla indifferibilità del tema Acquedotto Carolino, di Vanvitelli e dei percorsi d’acqua legati alla sua opera non se ne curava punto nessuno o poco più.

E visti i tempi presenti, non era nemmeno una gran iattura. Quindi se a qualcuno Ponte Nuovo appare come poco appetibile per la propria criticità sinaptica mi sento di proporre una soluzione penso efficace. In Airola, a Moiano, Bucciano, Luzzano, Pastorano non esistono, a meno di mia distrazione, piazze o strade che rechino le memorie di tali personaggi.

Se proprio si necessita di imporre nomi seguendo una mesta coazione a ripetere, ebbene le piazze e le strade di questi comuni potrebbero diventare piazze e strade da dedicare a Carlo III, a Vanvitelli, a Giaquinto, a Brunelli, a Bottiglieri, a De Mura, a Colonna e altri ancora che hanno disegnato buona parte della identità cui troppo spesso ci si richiama senza punto conoscerla.

Viceversa, veicolare spericolatamente tutti questi afrori toponomastici, senza l’ineludibile supporto della conoscenza, senza quel necessario discernimento che ci permetta di capire che cosa stiamo facendo, ci inchioda indefettibilmente al ginepraio delle noiose prurigini da cortile e alla psicopatologia freudiana.

Un pensiero attribuito a Giulio Cesare ricorda come il desiderio di gloria e la paura del disonore spronino alla virtù. Ecco, il timore non così infondato è che il desiderio di gloria, quale che essa variamente sia, senza il conforto della paura del disonore inteso come ignoranza attiva, si riveli oggi come il pretesto imbelle di chi non sapendo danzare si contenta di spargere nell’aria soltanto movimenti scomposti e senza destino.

Giacomo Porrino