Valle Caudina: In Caudio venenum (di Giacomo Porrino)

Redazione
Valle Caudina: In Caudio venenum (di Giacomo Porrino)
Valle Caudina: In Caudio venenum (di Giacomo Porrino)

Valle Caudina: In Caudio venenum (di Giacomo Porrino). Recentemente l’ineffabile governo inglese ha ulteriormente elevato la soglia di reddito con la quale poter ottenere un visto di lavoro nel Regno Unito.

Tempo di revanscismo reazionario

Dalle 26.200 sterline (circa 30.500 euro) necessarie fino a qualche tempo fa, soglia già peraltro non esattamente lieve, si è passati alle 38.700 sterline (oltre 45.000 euro) di oggi. Di fatto escludendo selettivamente non senza brutalità tutta la platea del lavoro non economicamente ambizioso oltre che quella degli studenti in cerca di formazione linguistica.

Si dirà che sono segni di un tempo tutto segnato dal revanscismo reazionario di quella parte di mondo che non ha mai smarrito l’ambizione di costruire società sempre più diseguali, sempre più ideologicamente accanite sui deboli, dove lo sfruttamento è il cemento putrescente e pertinace della violenza quotidiana di chi lo persegue come strumento di dominio. Si dirà così, forse.

Ma per i caudini ciò non costituisce necessariamente un problema. Sorprendentemente le terre del Caudio esibiscono risorse e opportunità come poche altre in Europa. D’altronde come considerare altrimenti risorse importanti quali l’intrigo indicibile di elettrodotti, vecchi e nuovi, di bassa e alta intensità emissiva, che solcano i cieli della valle in direzione dell’altrove, disegnando una involontaria ma inesorabile ragnatela di elettrosmog.

Tanto inesorabile da indurre lo stesso Uomo Ragno a preferire un più prudente e redditizio chiringuito alle Baleari. Il patrimonio arboreo? Non teme confronti neanche con la foresta di Mare Longue sulla île de la Reunion. Ma no, non mi riferisco all’insieme delle varietà officinali autoctone del Taburno, molto note in antichità e menzionate platealmente da quel mattacchione di Publio Virgilio Marone.

La foresta di antenne di radiotelefonia

Vecchi arnesi in un ripostiglio impolverato e ormai abbandonato. Parlo invece della luccicante foresta di antenne della radiotelefonia che impreziosiscono senza pari pressoché tutte le alture della valle allestendo, secondo natura, un pregevole esempio di biodiversità elettromagnetica di cui vantarsi con malcelata fierezza. Quella cioè che non teme alcun agguato del ridicolo, quella che investe l’ignavia complice e colpevole di chi è preoccupato solo di non sollevare il proprio sguardo dal piano della stia.

Sia mai che amministratori e cittadini fossero attraversati dal dubbio della mole di inquinamento elettromagnetico che attraversa le loro comunità. Sia mai, importa esclusivamente vi sia sufficiente segnale per lasciare le proprie irrinunciabili epigrafi elettroniche in una qualche rete sociale. Per tutto il resto c’è l’ARPAC, forse.

E non c’è da dubitare, salterà sempre alla giugulare della vostra attenzione il solito sagace della domenica ansioso di esibire la propria biodiversità cognitiva. Un esempio classico? I castelli. Anche un castello, nel medioevo, ha avuto un suo impatto ambientale e dunque possiamo immaginare assembramenti di protesta delle associazioni per la tutela del paesaggio del tempo contro la colata di tufo selvaggio promossa dal mitico Airoaldo e da quel gran furbone di Rainulfo ad Airola oppure dal lezioso Teoderico, per gli amici Mirando nonché raccomandato di Landolfo I, a Montesarchio.

Probabile, com’è noto a tutti il diritto longobardo già riconosceva dignità di rappresentanza all’associazionismo ambientalista post prandium. Quale che sia la visione più o meno lisergica della faccenda, ciò che sappiamo è l’unica differenza tra l’incastellamento medievale e quello radiotelefonico.

Gli archeologi, dopo lunghe campagne di scavo, hanno infatti clamorosamente accertato come un castello non emetta alcuna onda elettromagnetica e che non permetta alcun ingresso alla rete delle reti. Insomma, un redondone, un mastio, una casamatta, una base scarpata, una postierla non sono un modem e proprio non servono a curiosare sull’ultimo irrinunciabile pronunciamento elettronico del vicino di casa.

I castelli che marciscono ogni giorno

E infatti ben per questo è giusto marciscano ogni giorno di più nel loro status di rudere, la Valle Caudina si segnala per essere particolarmente zelante nella osservanza degli stilemi spettacolarizzati contemporanei. Forse sappiamo che in giro vi sono castelli, ma non sappiamo che cosa sono. E in qualche caso neanche dove si trovano. D’altra parte sono inservibili ai fini dell’affanno egotico dei numerosi autocertificati talenti locali, ansiosi come una folla dantesca in perenne ricerca di un palcoscenico da usare come oggetto contundente ai danni del contendente. Una irrefutabile batracaudinomiomachia che nemmeno lo pseudo-erodoteo avrebbe potuto preconizzare.

Si ergono antenne con leggiadra disinvoltura, nel silenzio delle comunità peraltro non precisamente interessate all’argomento, ma in compenso si tagliano alberi ovunque. E sì, perché se esiste una legge di compensazione universale è bene osservarla in qualche modo.

E il modo locale trova una sua sensibile rappresentazione in una infoiata baldanza alberofoba. Alcuni amministratori locali, ben serviti dalla complice indifferenza di molti cittadini, si segnalano nel recidere alberi, memorie vegetali e non semplici piante da estirpare a vanvera, con tale voracità da far sembrare la innominabile fame di popcorn di mio nipote al pari della dieta annuale di San Menna eremita.

Si tagliano alberi con la stessa disinvoltura che aveva mia nonna nel fare maglioni di lana, con la non lieve differenza per cui mia nonna – come molti della sua generazione – gli alberi semmai li piantava.

In qualche circostanza si arriva al punto di privarsi di alberi dalla vita pluridecennale per piantarne subito dopo altri, peraltro inadeguati e vistosamente dal gusto vieto. Mi preme segnalare il caso all’associazione nazionale di psichiatria, sono persuaso se ne caverebbe più di una interessante ipotesi di ricerca.

I cerchi nel grano e le rotatorie

The Mowing-Devil. Or, Strange News out of Hartford-ſhire (Il diavolo mietitore o notizie strane da Herefordshire) è un pamphlet inglese del 1678 cui si fanno risalire tradizionalmente le origini delle teorie, variamente oggetto di fantasticherie sub specie aeternitatis, su quegli agroglifi comunemente chiamati «cerchi nel grano».

Oggi in Valle Caudina il grano di fatto non esiste più e men che meno sono ipotizzabili crop circles, dunque si è ben pensato di introdurre un nuovo elemento geometrico in surroga. Le rotatorie stradali. In massima parte non richieste da alcuno, fatte male, talvolta sub specie mentula canis, di incomprensibile utilità, in qualche caso talmente illogiche da essere degne di una costruzione illusionistica di Escher, sovente pericolose stante l’attitudine a dir meno avventurosa di affrontarle da parte degli automobilisti indigeni.

Questi nostri cerchi sull’asfalto mostrano quanto gli italiani siano magari più versati nella risoluzione delle equazioni di Navier-Stokes che riuscire a evitare le collisioni. Gli occhi dell’indimenticabile Marty Feldman in questo contesto rischiano di apparire più lineari di un exultet beneventano-cassinese.

E che altro dire di quel mirabile complesso protomuseale formato da dossi stradali a vocazione elettorale, spesso irregolari e legalmente separati da ogni logica umana. Preziosi altari barocchi ridotti a sostegno di goffe istallazioni di alberi natalizi e un pulviscolo informe di varia rozzezza, più riferibili a un fondale di bassa scenografia televisiva che un luogo dove viga ancora un residuo rigore liturgico.

E ancora, gazzettieri flamboyants un tanto al chilo, e al miglior offerente, di tale vigore intellettuale da riuscire a slogarsi i polsi quando si pettinano. Permanentemente entusiasti di servire vita natural durante il loro principe di riferimento, e poco importa se spesso quest’ultimo confortato dalla statura intellettuale di un sollevatore di molliche.

Devastazioni ai danni del complesso archeologico

Per non tacere delle devastazioni perpetrate ai danni del complesso archeologico della Valle dell’Isclero, appendice della Valle Caudina tra Moiano e Sant’Agata dei Goti. Il passaggio della nuova tratta del gasdotto transtunisino e i pantagruelici lotti della fondovalle Isclero hanno causato danni ingenti a tutto quello che attendeva di essere conosciuto, studiato, acquisito al patrimonio degli studi.

E ciò che rende questa vicenda funambolicamente paradossale è proprio nell’aver consentito, proprio questi cantieri, una irripetibile occasione di studio. Certo, su quello che avanzava da quanto nel frattempo veniva distrutto.

Immaginate una strada nel bel mezzo dell’area archeologica di Pompei con gli archeologi impegnati a raccogliere le briciole restanti di una domus appena sventrata. Dicono sia la modernità, lo dicono i moderni servitori del conformismo servile e opportunista in servizio permanente effettivo.

Chissà quali graffiti rupestri sarebbero in grado di tracciare i primi abitatori della piana caudina durante il Neolitico, se avessero la possibilità di osservare la nostra presente condizione. Plausibilmente si dichiarerebbero incapaci di procedere a una qualunque ipotesi di sintesi. E non si vede chi potrebbe biasimarli.

Elettrodotti ipertrofici, gasdotti incogniti, colline sbancate, antenne fuori controllo, rotatorie ad libitum, dossi in offerta speciale, ferrovie da spaghetti western, stazionamenti aerei che manco un parcheggio al supermercato, disegnano il paesaggio di una terra ormai ridotta a mero attraversamento di questa o quella infrastruttura nella maggior parte dei casi neanche volta alla presunta utilità locale. Un semplice corridoio, più che una valle propriamente intesa.

Anzi, più correttamente un attraversatoio buono per ogni occasione, diviso in due province e sbriciolato nella indifferenza dei localismi più sulfurei. Dove si ciancia sovente di pretese città caudine al cui confronto, i resti dell’antica Caudium o le tracce della terrazza tufacea della vicina Saticola, presentano una vitalità pari a quella di Las Vegas.

Ma allora, si chiederà il lettore sagace, non c’è davvero proprio niente da fare, niente per cui valga la pena essere qui?
Al contrario, è possibile seguitare a vivere queste nostre contrade a patto di inventarsi un nuovo mestiere.

Quello di tornare a vedere che cosa davvero questa terra può ancora dare, abbandonando posture modaiole e rabberciate imitazioni di modelli improponibili. E il vedere, non il semplice guardare, implica fatalmente il conoscere. Sapere dove e come trovare le risorse necessarie alla costruzione di un orizzonte di senso.

Archeologi della realtà

Occorre essere archeologi della realtà, scavare e sottrarre cioè la stratigrafia delle sedimentazioni di pattume culturale, lerciume economico, miseria umana. Invertire cioè la metodologia di lavoro dell’archeologo propriamente inteso, scavando tutto ciò che è però sopra il piano di campagna, tutto quello che attende la nostra curiosità, la nostra accuratezza e, se possibile, il nostro amore. La Valle Caudina è una biblioteca ricolma di scaffalature dove malgrado tutto è ancora possibile trovare ogni genere di mirabilia, di risorse realistiche e dannatamente concrete. Si trovano lì da sempre, e noi da sempre a guardare dall’altra parte. E tocca però sempre a noi capire quali e in quale modalità poterle porre dentro un plausibile inferenza attuale.

Di velleitarismo e pressapochismo si muore ogni giorno, qui come altrove, qualcuno questo lo sa. Di conseguenza non può che essere nell’esatto opposto l’atteggiamento che potrebbe tentare di fermare un declino tanto manifesto quanto, proprio per questo, rimosso.

Non ancora troppo tardi

Chiaramente è tardi, ma non ancora troppo tardi. Viceversa nel corpo del Caudio, nella sua coda terminale, non potremo che trovare il primo aspide e l’ultimo veleno. Nel libro di Isaia è detto che «Il lattante si trastullerà sulla buca dell’aspide; il bambino metterà la mano nel covo di serpenti velenosi». Ma questi serpenti non strisciano. Questi serpenti camminano, respirano, parlano. E per il loro veleno non esiste alcun antidoto.
Buon Natale e felice anno nuovo. Giacomo Porrino.

( Nella foto Richard de Saint Non, Vallée del Fourches Caudines près de Caserte, Parigi 1786)