Estasi e tormento: ” Succisa Virescit “,il soffio che restituisce alla vita

Redazione
Estasi e tormento: ” Succisa Virescit “,il soffio che restituisce alla vita
Estasi e tormento: " Succisa Virescit ",il soffio che restituisce alla vita
Estasi e tormento: ” Succisa Virescit “, il soffio che restituisce alla vita. “Lacrime e ginocchia spezzate: dalla distruzione alla rinascita, nell’Arte come nella vita”. La solenne eternità delle statue antiche. Bellezza pura che, superba, s’impone, attraversando pervicacemente i secoli.

Grazia immortale

Volti sublimi che, refrattari alla tirannia del Tempo, sopravvivono intatti, conservando con fiera maestosità la propria grazia immortale. E pur tuttavia, vi sono altresì, sovente, sculture mutili, acefale; oppure, semplicemente, non destinate a rievocare la potenza suggestiva di un antico passato, quanto piuttosto frangenti di pura, umana, eterna fragilità.
Così integre nella loro totale assenza di imperfezione, se ne stanno lì, necessarie a se stesse, chiuse in un gesto eterno che potrebbe raccontare, di volta in volta, mille storie diverse. Oppure, la storia di ognuno di noi.
Raccontavano gli antichi Greci che siamo fatti di terra e lacrime. Terra e lacrime, così nacque la stirpe umana. Si dice fosse stato il figlio del Titano Giapeto, un dio dall’ingegno rapido e multiforme, Prometeo (letteralmente da “pro-metis”, “intelligenza preventiva”), a piangere sulla terra, ad impastarla di calde lacrime e a creare così i primi uomini.

Materia grezza per plasmare un corpo umano

Terra e acqua, materia grezza e sentimenti, per plasmare un corpo umano. Per donare ad esso voce, vigore. E un cuore che batte. Finanche nell’Iliade e nell’Odissea, gli eroi leggendari che hanno combattuto le battaglie più ardue, affrontato le prove più dure, vinto i nemici più agguerriti, non temono di mostrarsi in lacrime. Piange Odisseo, piange Ettore, piange Agamennone. Piangono Menelao, Telemaco, Patroclo, Diomede, Priamo. Piange Achille, l’eroe di tutti gli eroi.
Che sia per disperazione, per rabbia, per amore, per dolore, per nostalgia, per gelosia, per solitudine, per amarezza, per rimpianto, essi piangono a viso aperto. Senza risparmiarsi. Senza provare vergogna. Singhiozzano. Gridano. Tremano. Si accasciano. Sentono strozzarsi in gola lacrime amare. Piangono sino a patire la fame. Piangono sino a saziarsi del pianto stesso.
Piangono perché in quelle lacrime, paradigma universale di una sofferenza estrema esplicitata da un atto infantile e comune ad ogni essere umano, dal primo vagito sino all’ultimo respiro, risiede il germe di una passione indomabile. Bruciante. Ineludibile. E piangono altresì perché in quelle lacrime, in ogni lacrima, si erge il riflesso di un mondo in cui gli uomini potevano davvero ancora essere eroi.

Figuranti del dolore

Tanto coraggiosi da mostrarsi sfigurati dal dolore. Tanto umani da non nascondere le proprie debolezze. Tanto forti da non celare la propria umana, dignitosa fragilità. E forse proprio per questo, più che mai tenaci di fronte all’eventualità della morte. Più che mai capaci di vincere il nemico forse più detestabile: la paura della propria finitezza. Della prossimità al nulla disegnata in un lampo. In un attimo.
Eppure, da Platone ad oggi, una tradizione trionfalistica ha deformato il volto di quest’uomo davvero umano, consegnandolo ad una dimensione necessariamente vincente. Extraterrena. Quella che ci vieta le emozioni, le lacrime, il pianto. Quella che ci obbliga ad essere eroi ad ogni costo, a contrabbandare la nostra natura infinitamente fragile per onnipotente. Divina.
Quella che nulla ha a che vedere con il canto dell’epos antico, irrorato, al contrario, dalle lacrime sparse tra mare e terra di quelli che pur furono creduti semidei. Ed è proprio Platone ad insegnarci come le lacrime poco si addicano ad un guerriero, ad un eroe, ad un uomo di stato. A chi non deve cedere mai. A diffidare di quelle eruzioni emotive così inconciliabili col nerbo del coraggio. Del potere. Della passione. Della forza.

La sostanza vitale nelle lacrime

Eppure, a ben vedere, è proprio in esse, nella materia liquida di quelle lacrime, che i più antichi Greci vedevano, al contrario, la sostanza vitale. Un fluido fertile, analogo al seme e al sudore, costitutivo della vita e della forza stesse. Nonché, fuor di metafora, il fluido cerebro-spinale, che attraversa ogni singola cellula del corpo umano sino a depositarsi nelle articolazioni. E in particolare, nelle articolazioni delle ginocchia. È lì, infatti, che scorre la linfa vitale, tant’è che al loro improvviso spezzarsi non può che sopraggiungere la morte.
Ed ecco allora che possiamo, altresì, intendere il senso di un termine ancor più caro alla lingua greca, e di ancor più difficile traduzione: “aion”. Generalmente tradotto con “vita” o “soffio vitale”, l’aion non è altro che tale linfa.Lacrime, sudore, sangue, sperma, linfa: il liquido che percorre il corpo umano è ciò che lo rende vitale. Ciò che ci tiene, letteralmente, in vita. E letteralmente, siamo fatti di sangue e lacrime. Di tutte le volte che sentiamo le ginocchia piegarsi.
Di tutte le volte che, sudando, sanguinando, piangendo, piegandoci, decidiamo stoicamente, eroicamente di rialzarci, pur conservando le nostre umane fragilità. Perché sono esse a renderci umani. E quanto più esse sono profonde, tanto più noi siamo veri. Autentici, reali. Tanto più siamo vivi.
La nostra cultura, profondamente occidentale, mediterranea, è da sempre abituata a contemplare abbaglianti testimonianze della sensibilità classica. Potenza evocativa. Proporzioni eleganti ed impeccabili. Esecuzione suntuosa. Fine padronanza delle anatomie. Modellazione e finitura perfette del marmo. Composizioni equilibrate. Pose dignitose. Solennità austera dei corpi, delle espressioni, dei volti. Sempiterna imperturbabilità. Tutti, formali echi di una tradizione fatta di serenità e di eroica compostezza.

Tragicità degli umani

Ma cosa accade, invece, quando tre scultori quasi misconosciuti e dai nomi quasi impronunciabili, Aghesandros, Athenodoros, Polydoros, lasciano erompere tutta la tragicità degli umani sentimenti, in ossequio al più alto Ellensimo?
Ecco che trasformano un blocco di marmo nel celeberrimo Laocoonte, una delle sculture più ammirate di tutti i tempi, la cui copia romana, risalente al I sec. a.C., troneggia oggi ai Musei Vaticani, in tutta la sua superba, regale bellezza. Perché, parimenti agli eroi omerici, essa non teme di mostrare i volti dei propri protagonisti sfigurati dalla smorfia del pianto, dalla morsa del dolore.
Quel pathos struggente. Quel tormento disperato. Quell’agonia estrema, che li fa contorcere su se stessi, stretti ancor più tra le spire di mille serpenti marini, appositamente spuntati dall’acqua per ghermirli. E non temono di soffrire. Non temono di esplicitare quel conturbante, sublime dolore. Non temono di accasciarsi su se stessi. Di piegarsi sulle proprie ginocchia. Non temono di trascendere, di liberarsi, di aggrapparsi a quell’ultima speranza che li tiene in vita, sino allo stremo delle forze.
Solo una corrente artistica come l’Ellenismo avrebbe potuto anteporre tale spirito alla perfezione composta del sentimento e, altresì, della materia, della finitura impeccabile del marmo stesso.
Malgrado la grave deturpazione delle superfici, il colpo inferto dal sovrano tempo o dalla mano dell’uomo, infatti, il Laocoonte non perde la sua regale, austera dignità. Resta lo sfregio della forma, l’offesa inflitta al marmo dallo scorrere inesorabile dei secoli. E pur tuttavia, permane altresì in esso una potenza evocativa, una suggestione che neanche cento colpi di martello avrebbero saputo scalfire. E, seppur meravigliosamente restaurato, esso non avrebbe perso alcunché della bellezza imperitura di cui è pervasa ogni singola parte, ogni minima scheggia, ogni minuscolo frammento.
Esattamente come dinanzi alla bellezza maestosa del Laocoonte, risulta difficile pensare che talune opere d’arte siano esasperate nella loro esacerbata espressività. Oppure, ancor peggio, infrante, incompiute. Rotte. Incomplete. Deturpate da chissà quale restauratore avanguardista. Esse contemplano e consolano. Perché, se possono viver loro dimezzate, chi siamo noi per blaterare dei nostri pezzi rotti o mancanti? Possiamo ancora essere meraviglia.

Antitesi tra perdita e rinascita

Perché può accadere, può accadere di piegarsi e spezzarsi proprio quando si è allo stremo delle forze. Nei punti in cui si è più fragili, quando ci si sente più vulnerabili. Oppure, viceversa, quando ci si crede invincibili. Eppure, ogni straziante perdita che si rispetti, che sia di una parte di sé, di una persona cara, di un amore, della propria integrità fisica e morale, contiene in sé l’implicazione di un passato pieno e rigoglioso. L’antitesi tra la perdita quasi totale e la rinascita. Il paradosso che, quand’anche si sia subito il più feroce degli attacchi, un albero reciso possa generare sempre a nuovi rami. Germogliare sempre a nuova vita.
Probabilmente è per questo che l’arte è l’epica dei giorni nostri, e che alcuni eroi assurgono al ruolo di miti. Perché le loro storie procedono oltre il personale significato. La loro grandezza trascende l’individuo che le interpreta. Diventano patrimonio di ognuno di noi. Ci descrivono, ci rappresentano.
E perché le passioni tristi, forse, quelle sì: costringono all’esilio in se stessi, in quei recessi dove ci assomigliamo tutti; perché siamo terribilmente scontati, e terribilmente simili, nelle nostre chiusure imposte dalle paure. Ma forse mai, mai veramente soli. Perché essi c’insegnano, altresì, che cosa sia la mentalità eroica, vincente. Quel principio dell’ispirare, derivante da un’etimo che, a sua volta, ha a che fare proprio con quell’aion, proprio con quel “soffiare”.

Restituire alla vita

Soffiare aria, soffiare ossigeno negli altrui polmoni. Soffiare sulle ginocchia piegate e sbucciate di un bambino quando cade. Per restituire sollievo. Per restituire alla vita. Quella vita che non muore mai. Che si rigenera sempre, in forme nuove e inaspettate.  E sempre, sempre, quand’anche ostinata a metterci in ginocchio, quand’anche essa stessa recisa alla base, trova il modo di mettere nuove gemme, e rinverdire.
“Succisa, virescit” sono le parole che adornano lo stemma di una delle facciate dell’Abbazia benedettina di Montecassino. Esse fanno da cornice ad un’icona simbolica: il ceppo di una quercia, recisa alla base, ma da cui si vanno dipartendo nuovi rami. Due sole, singole parole che, tradotte letteralmente, vogliono dire: “Recisa alla base, torna a rinverdire”. Ed ecco che, allora, sempre risorge. Più solida, più bella, più forte di prima. La vita. Succisa virescit, allora. “Succisa, virescit.”
Serena Fierro